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Il pianissimo di John Cage e il 3X dello speed listening: un’indagine sul suono e le sue culture
Musica
Tra qualche amena avventura in discoteca, un nuovo saggio di Caspar Henderson su “fragori, scoppi, bisbigli, ronzii”, un’esecuzione plurisecolare, l’approccio della Gen Z all’ascolto frenetico e un’immersione nella muzak che ci circonda. La forbice dell’ascolto: un approfondimento in tre puntate sul culto del suono, dalle nuove pratiche di fruizione ai vecchi tabù.
Parte II
Elogio della lentezza e turboascolti
Ci sono ampi stralci del capitolo 8 dei Promessi Sposi – quello in cui i bravi di Don Rodrigo, con a capo il Griso, vanno a violare la casa di Lucia, per rapirla – nei quali vengono lanciati spudorati ammiccamenti al ralenti, elogi della lentezza, descrizioni di azioni felpate. I bravi passano davanti alla casa, in ricognizione: passano «Pian piano». Quando vanno all’assalto, per rapire Lucia, non mutano ritmo. Il Griso ha cautele eccezionali. Manda due sgherri a scalare «Adagino», il muretto. Lui va a picchiare alla porta «Pian piano», con garbo. Si noti bene. La porta è lontana dalla casa e nessuno potrebbe mai sentire un battito così gentile. Il Griso dà ordine a un altro bravo di saltare il muro, di andare a sconficcare, ma «Adagio», il palo della porta. Così fa: tutto al rallentatore. Il Griso entra adesso con la truppa: e una volta dentro richiude «Adagio adagio» l’uscio. I manigoldi sono ora davanti alla porta della casa. Il capo bussa. Non c’è risposta e il malandrino si decide a fare finalmente il suo mestiere: forza la porta. La forza tuttavia «Pian pianissimo», con delicatezza. È una pagina perfetta, che descrive come meglio non si potrebbe un’azione e insieme anche un tono, un’atmosfera, un feeling.
Quel che si può fare in letteratura si fa ancora meglio in musica. E l’esplorazione del pianissimo e dell’adagio musicale è appunto un tema, un grumo esplorativo avvincente. Dovrebbe per forza di cose partire con placida ostinazione, alla ricerca di tutti i possibili fili e reperti discografici che legano il suono al ritmo più dilatato e assorto. Una ricerca impegnativa e piena di quiete sorprese. La lentezza è un mare magnum dentro il quale si sono avvicendati musicisti d’ogni stile e geografia.
Nella musica classica la definizione di “adagio”, “largo”, “larghetto”, “lento” corrisponde ad altrettanti input ritmici che hanno funzionato da tavolozza per capolavori assoluti di lirismo e meditabonda introspezione. Mozart, Beethoven, Rachmaninov, Barber, Mahler, Elgar, Ravel: sono tutti autori di pagine memorabili nelle quali la poesia si appoggia alla calma, la visione trova una culla privilegiata nei grandi spazi della lentezza ritmica.
Capita la stessa cosa a forme antiche di matrice mistico religiosa come l’introitus del Canto Gregoriano e ai primi modelli di musica per danza come la sarabanda e l’alemanda. Sono matrici che per forza di cose sconfinano anche nella grande fucina delle musiche etniche, laddove i rituali hanno bisogno di calma e lenta iterazione per evolversi e risolversi: il canto tibetano, le melopee sufi, certi gospel, i riti tradizionali di Tuva, le antichissime ballate celtiche.
Proprio la ballata, o ballad, è forse la griglia privilegiata delle escursioni nella lentezza dei grandi protagonisti del pop, del rock, del jazz. Standard come Body & Soul, God Bless The Child, My Funny Valentine, costituiscono il pretesto per le sublimi improvvisazioni di grandi intarsiatori di sentimenti e bozzetti lirici come Ben Webster, Coleman Hawkins, Miles Davis, Chet Baker. Duke Ellington e Charles Mingus hanno saputo cesellare partiture assorte, declinando su “grandi spazi” invenzioni tra le più complesse della cultura musicale nera. I grandi bluesmen hanno spesso strascicato lentamente le proprie dolenti e furiose introspezioni sonore. Le stelle della soul music e del pop hanno quasi sempre utilizzato gli “slow” per accendere emozioni e calcare la mano sulla radiografia dei sentimenti, mentre i cantautori d’ogni latitudine si sono presi “porzioni di lentezza” per raccontare storie intime, denunce dolorose, narrazioni epiche. Per non parlare poi dei destrutturanti maestri del dub giamaicano, che hanno scelto il “rallentamento” come primaria opzione poetica.
C’è poi John Cage che, al solito, mette un punto fermo agli orizzonti della creatività. Nel suo ORGAN/Aslp, un brano composto nel 1985 per pianoforte e riscritto per organo nel 1987, segnalò come indicazione interpretativa: “as slow as possibile”, “il più lentamente possibile”. In Germania, come noto, tendono a prendere molto sul serio qualsiasi cosa.
L’esecuzione del brano di Cage ha avuto inizio nella cattedrale di Halberstaad il 5 settembre 2001 (89mo anniversario della nascita del compositore, scomparso nel 1992) con una pausa, durata 17 mesi. Il 5 febbraio 2003 è stato eseguito il primo accordo, che è stato poi suonato ininterrottamente fino al 5 luglio 2005. Per suonare le lunghissime note vengono impiegati sacchetti di sabbia posizionati sui pedali dell’organo, spostati in date e orari prestabiliti per rispettare l’esatta partitura del brano ed il tempo di esecuzione scelto.
Inizialmente l’organo disponeva di sole sei canne. Alle 15:33 del 5 luglio 2008, al termine di un accordo iniziato il 5 gennaio 2006, furono aggiunte due nuove canne per consentire di suonare la nota successiva. Il 5 luglio 2012 furono aggiunte altre due canne d’organo. Gli ultimi cambi di accordo sono avvenuti il 5 ottobre 2013, il 5 settembre 2020 e il 5 febbraio 2024. Tenendo conto del tempo d’esecuzione scelto, la performance si dovrebbe concludere il 5 settembre 2640, 639 anni dopo il primo accordo.
È un racconto al ralenti, che contrasta con una pratica messa in atto dalla Gen Z, poco propensa a dilatare il tempo di ascolto e a degustare con paciosa calma il tempo dedicato alla musica. «Ho sempre trovato che mettere la musica a velocità 2x la rende molto più eccitante che ascoltarla normalmente – scrive un utente in un forum di discussione su reddit.com – considerando anche il fatto che la musica di oggi può essere così lenta e lunga».
È una fotografia precisa del cosiddetto speed listening, che spinge molti ragazzi e ragazze non solo a velocizzare gli audio vocali che arrivano su Whatsapp, ma ad applicare la stessa tattica anche alle hit e ai brani che incrociano o che scelgono d’incrociare nel loro training di ascolto musicale. «Lo speed listening non solo fa risparmiare tempo, ma riduce anche i costi di acquisizione delle conoscenze», scrive Camillo Mingone, psicologo e tutor di campioni del poker, in un articolo su medium.com.
In questo modo la durata di una canzone pop standard (che si è abbassata da 3 minuti e 50 secondi a 3 minuti e 30 secondi negli ultimi cinque anni) diminuisce ancor più drasticamente e si riduce a 1 minuto e 45 secondi di media. Naturalmente, in questo modo saltano anche tutti gli altri parametri: bpm, tonalità, range timbrico, durate di effetti come delay e riverberi, ma è chiaro che chi ha deciso di giocare a questo gioco nell’ascolto musicale è interessato molto blandamente a tutelarli.
Per ora si tratta di una sottocultura fatta di persone – perlopiù adolescenti, ma ci sono anche ventenni, trentenni e qualche nerd quarantenne – che ascoltano contenuti audio (telefonate, podcast, musica) a velocità accelerate, a volte fino a tre volte più veloci del normale. Per queste persone, note come “podfaster”, un discorso dal ritmo normale può sembrare al rallentatore, una musica troppo lenta può annoiare, un brano musicale lungo sei minuti (ma anche 3 e 30 a quanto pare) può apparire come una vetta da scalare.