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Intervista a Robin Rimbaud aka Scanner
Musica
L’inglese Robin Rimbaud da tempo ha assunto il nome d’arte Scanner, personaggio affascinante e sfaccettato in grado di attraversare l’arte contemporanea e la musica elettronica con disinvoltura. Attivo ormai da diversi anni ha gradualmente assunto una posizione centrale nella scena della cosiddetta sound-art divenendo una vera figura mitica…
Mi parli dei tuoi inizi?
É da anni che registro ed uso registratori di cassette e radio ad onda breve per ricevere segnali da tutto il mondo, è così che ho scoperto lo scanner verso la fine degli anni ’80 (è una radio relativamente semplice), che mi ha dato non solo la possibilità di sintonizzarmi direttamente sulle lingue e le vite private di individui, ma anche di darmi un nome.
La tua ricerca lambisce i confini della musica e dell’arte visiva. Che significa per te lavorare nel circuito musicale e quale nel sistema dell’arte contemporanea?
È una questione interessante questa. L’arte per me non è mai stata una “cosa”, una disciplina orientata verso l’oggetto, piuttosto la vedo più come un processo e come tale qualsiasi limitazione o chiusura che la gente pone ai lavori, produce immediatamente ulteriori limitazioni, come tra l’altro ci ha dimostrato il lavoro col suono. Negli ultimi 3-4 anni, soprattutto il suono è stato finalmente riconosciuto per il ruolo che giustamente dovrebbe avere, alla pari con le arti visive, la poesia, la letteratura etc. C’era una situazione simile per molti anni con la fotografia, nel senso che le gallerie ed i musei non la riconoscevano come una forma d’arte valida; come anche la video-arte che negli ultimi 30 anni si è sviluppata a tal punto da essere ora riconosciuta a pieno titolo permettendo l’accesso ad un pubblico molto più vasto.
Io sono solo una faccia delle tante che compongono una lunga storia di artisti che si spostano tra varie scene e processi. Dagli anni ’60 la relazione tra gli spazi delle gallerie e spazi delle performance è cambiata e il pubblico si è trovato davanti a possibilità nuove che non avevano mai avuto. John Cage, Yoko Ono, The Velvet Underground, Charlemagne Palestine, tutti offrivano idee e lavori che trascendevano i normali spazi “artistici” e negli anni la gente si è lentamente aperta al punto tale che oggi in alcuni spazi le barriere sono quasi inesistenti.
Sono contento di aver sempre l’opportunità di offrire le mie idee ed il mio lavoro ad un pubblico che ad esempio non frequenterebbe un evento di musica elettronica.
Oltre la musica e l’arte contemporanea hai lavorato nel mondo del teatro e del cinema. M’interessa capire come ti rapporti a questi settori.
Continuando con l’ultima risposta, io cambio forma quando voglio, mai definendo me stesso o il mio lavoro con una particolare etichetta. Sono interessato a idee e temi che possono manifestarsi in tanti modi diversi e tramite molte strade.
Tutti i lavori che produco, sia con il suono e sia con l’arte visiva, funzionano come metafore del rapido processo di “mappare” i confini sfuocati tra l’intimo (cioè la sfera individuale) e il pubblico (la sfera accessibile a tutti). Indipendentemente dal fatto che mi esprimo nei club, o con installazioni e colonne sonore; i miei progetti interrogano non solo gli interventi nascosti quotidianamente esercitati dal paesaggio sonoro immateriale sul nostro ambiente fisico, ma anche la nostra consapevolezza che questo fenomeno è sempre presente, con le sue leggi e le possibilità di manipolarlo.
Spesso, per i motivi di cui parlavi prima, lavorare con il suono può non essere comprensibile tanto per gli addetti ai lavori quanto e soprattutto per il grande pubblico. Ti sei mai chiesto se i tuoi lavori richiedono di codici di decodificazione precisi?
Non puoi fare lavori che piacciono a tutti, è prima di tutto importante fare lavori che smuovono te stesso il creatore e poi sperare che nel processo un pubblico possa rispondere in maniera positiva. È un rischio costante che si corre, cioè quello che il proprio lavoro venga interpretato male, capito male, ridicolizzato. Alla fine della giornata però in fondo almeno si prova a far accadere qualcosa, cercando di scavare a fondo e tirare fuori qualcosa di passionale e che riesca a motivare. Non si può mai incolpare il pubblico.
Insieme a te sono molti gli artisti dediti ad una ricerca multidisciplinare che lega arte e musica (Noto, Rjoji Ikeda, Brandon Labelle, Steve Roden etc) che negli anni ’90 grazie al veloce progredire e la democratizzazione delle tecnologie di registrazione e di editing ne hanno sviluppato diversi aspetti…
Credo che finalmente è arrivata l’ora che il suono e la sound art si apriranno ad un pubblico molto più vasto di prima. È facilmente traducible in molte culture, non si limita a questioni di lingua, non hai spesso bisogno di punti di riferimento per iniziare ad apprezzare il lavoro. Negli ultimi 3 anni ho fatto parte di un numero di spettacoli per gallerie che hanno chiaramente a che fare con la sound art – Sonic Boom alla Hayward Gallery a Londra, 010101 al SFMOMA, Sonic Process al Macba Barcelona e al Pompidou Centre Parigi – quindi finalmente sembra chiaro che gli organizzatori stanno espandendo I loro orizzonti. È un momento molto buono. Nel creare questi lavori ho ovviamente condiviso tempo e belle cene con tutti gli artisti che hai citato e credo che essi stiano creando alcuni del lavori più freschi e dinamici di oggi.
E come ti sembra la risposta del mercato nei confronti della sound art? Chi sovvenziona quei lavori che richiedono molte volte un alto costo di produzione? C’è più interesse da parte delle gallerie private o dalle istituzioni pubbliche?
Il Mercato? Non sono mai sicuro di cosa sia il mercato al giorno d’oggi. Non penso mai alle vendite dei dischi ed alle possibili vendite in questo settore di CD, etc. Alcuni progetti sono finanziati pubblicamente, altri sostenuti dal British Council (come per me), altri sono finanziati privatamente, altri ancora personalmente come la pubblicazione dei dischi. Gallerie private non mi hanno mai contattato per il mio lavoro. Chi può dire, col tempo tutto può cambiare.
In che modo hai iniziato a lavorare attorno all’idea di trasformare immagini in suono?
Quando ero un adolescente mi divertivo a giocare coi suoni sul mio registratore a nastro 4 tracce Teac e cercavo di costruire forme coi suoni. Cercavo di immaginare di poter costruire un certo tipo di forma: ad esempio un diamante tramite il suono. Non avevo mai successo ma era un’avventura intrigante per me. Recentemente gli sviluppi tecnologici del software mi hanno permesso di processare immagini, di mappare suoni e leggere l’informazione binaria del colore e dell’ombra come suono. Ancora oggi penso alla forma ed al colore nei lavori che faccio, soprattutto nelle collaborazioni, quando considero come lo spazio pubblico funzionerà nel contesto.
Ultimamente hai presentato all’Accademia Britannica di Roma una nuova installazione/performance intitolata ‘52 spaces’: il rifacimento sonoro del noto film “L’eclisse” di Michelangelo Antonioni. Come mai questo interesse per il cinema d’epoca? Cosa ti ha attratto del regista italiano?
Questo progetto esplora le risonanze ed i significati nascosti del suono all’interno delle immagini cinematografiche. Prendendo L’Eclisse di M. Antonioni come il punto focale di ispirazione questo lavoro cerca di riassemblare il film attraverso la memoria del suono nel film stesso e le location dove è stato girato e attraverso le mie esperienze personali all’interno della città di Roma. I miei ricordi personali della città evocano smarrimento, avendo esplorato la città per la prima volta insieme ad una persona cui ero molto legato al tempo. Ora con questi ricordi nella mente le mie esperienze di Roma si sono colorate costantemente di questi momenti, la scomparsa di qualcuno con cui una volta ero in rapporti così intimi e con ciò il mio tentativo di fuga da questi ricordi.
Detto semplicemnte “L’eclisse” è l’inizio della fine, suggerendo un senso di smarrimento, di come la moderna società industriale può annullare le emozioni tra l’uomo e la donna. Nonostante sia essenzialmente sulla relazione tra l’uomo e la donna, la vuotezza dei loro affetti si rispecchia negli edifici e nel paesaggio. È tramite piccolissimi dettagli che incominciamo a capire i personaggi, come si rapportano con il loro ambiente fisico ed in tutto questo il suono è cruciale per la nostra comprensione del film. lavori di Antonioni di questo periodo mi hanno sempre intrigato, perché esprimono una intimità sensuale con la città e le sue persone in maniera distaccata e interessante.
Che tipo di progetti hai prossimamente?
Questa è una domanda facile da fare ma difficile da rispondere. Recentemente ho presentato un’installazione permamente al Raymond Poincare Hospital a Garches in Francia nella Salles Des Departs, praticamente la stanza dove ci si saluta con i propri cari. Va d’accordo con il bellissimo design di Ettore Spalletti. Ho appena aperto Bette, una nuova etichetta fondata per far uscire lavori che altrimenti non troverebbero spazio al di fuori del loro contesto originale. 52 spaces è una uscita di questa etichetta e l’altra è la colonna sonora di Nemesis, il lavoro di danza contemporanea di Random Dance – resident company of Sadler’s Wells London – che ha appena celebrato il decimo anniversario.Ho numerose uscite in arrivo ed è un periodo estremamente prolifico per me. Ho registrato troppi dischi per le vostre liste natalizie! C’è una collaborazione con l’icona digitale americana Kim Cascone che uscirà per Sub Rosa, un live con Stephen Vitiello sempre su Sub Rosa, un nuovo EP sulla Underscan di Berlino e uno per l’americana Zerogsounds, poi ci sono dei remix per Tennis, Meat Beat Manifesto e due belle collaborazioni su Bip Hop in Francia con Tonne, il CD delle Sound Polaroids, ed il CD Sound Toys.Adesso poi vado a Milano per continuare a scrivere e collaborare con il meraviglioso compositore Salvatore Sciarrino, poi a Montreal per ricreare la colonna sonora di Alphaville di Godard (1965), poi finisco le colonne sonore per le produzioni radio BBC.
E poi tante altre cose!
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posteverything.com/bette
underscan.de
zer0gsounds.com
bip-hop.com
subrosa.net
marco altavilla
Bio
Scanner – nome d’arte del soundartista inglese Robin Rimbaud – crea paesaggi sonori stratificati incrociando diverse tecnologie in maniera insolita. Nei suoi primi e controversi lavori adoperava lo scanner (una specie di telefono/radio mobile) in grado di registrare delle conversazioni telefoniche che inseriva e manipolava successivamente nelle sue composizioni musicali, e più di recente si è concentrato sull’idea di scovare i rumori nascosti della moderna metropoli intesa come simbolo del luogo dove i significati e i contatti perduti emergono. Dopo aver ricevuto l’ammirazione di Bjork e Stockhausen, Scanner ha iniziato a lavorare con altri musicisti dediti alla tecnica del cut-up e ha collaborato con musicisti come Bryan Ferry e Laurie Anderson, Rambert Dance and Random Dance Company, scrittori come David Toop e Simon Armitage artisti come Mike Kelley, e molti altri. Come compositore musicale la sua produzione include colonne sonore per film, performance, radio ed installazioni site-specific dove adotta diversi media. Ha esposto e creato lavori nei più prestigiosi spazi dell’arte contemporanea tra cui il SFMOMA negli Stati Uniti, l’Hayward Gallery di Londra, il Centre Pompidou di Parigi, la Tate Modern di Londra e il Modern Museum di Stoccolma.
[exibart]