Categorie: Musica

Io, il jazz e la strada

di - 16 Aprile 2012

Ho una provvista settimanale di sei dischi e li ascolto sempre e
solo in macchina. Provengono da quell’enorme serbatoio di inascoltati
che giace nella mia libreria. Sono ormai centinaia e aumentano in modo
direttamente proporzionale ai miei viaggi e al mio carico di lavoro. Li
inserisco tutti e sei nell’impianto stereo della macchina e cerco di
ascoltarli con la massima concentrazione possibile. Lo so, dovrei
vergognarmi dell’uso della parola disco e stereo. A tutt’oggi ascolto
musica solo attraverso strumenti analogici. Passato il tempo in cui
potevo dedicare ore e ore all’ascolto dei miei amatissimi 33 giri,
lontani ormai i momenti in cui a casa potevo ascoltare i cd, non mi
rimangono che i chilometri con accompagnamento musicale.

Ecco la selezione di questa settimana (19-25/3): Habanera, Simple
Acoustic Trio. Una raccolta di musica Rai (Niente a che vedere con la
RAI): 1970’s Algerian Proto – Rai Underground. Robbie Basho: Venus in Cancer. John Barry, Chris Botti: Playing by heart. Melvin Gibbs’ Elevated Entity: Ancients Speak. Dorothy Ashby, arpista afroamericana che ebbe una breve stagione di successo alla fine degli anni Cinquanta.

La scelta dei cd è dominata sempre da un’ispirazione ottusa che mi
porta a congetture banali, ma necessarie, per decidere di selezionare e
posizionare proprio quei cd nel caricatore. Eccole: Basho lo ascoltavo
quando avevo 16 anni e non mi dispiace cercare di capire se quello che
consideravo un musicista straordinario è stato ridimensionato dal tempo e
dalla morte. La musica algerina ha un grande fascino su di me. Adoro i
cantanti, le loro nenie e il canto strascicato che si ispira ai muezzin.
Penso che non mi deluderà.

L’arpista la conosco. Mi rilassa. Ne ho bisogno.

John Barry l’ho già ascoltato ma non lo ricordo bene.

Il disco di Vernon Reid mi è stato consigliato da Arto Lindsay.

Il pianista polacco sembra bravo. È ora di sentirlo.

Prima ancora di ascoltarli commento silenziosamente le copertine dei
cd, che sono immancabilmente orribili. Grafica cheap, note di copertina
scadenti e approssimazione nella stampa accompagnano spesso musiche di
grande qualità.

La copertina di Venus in Cancer di Basho è una delle più brutte che
abbia mai visto e non riesco ad immaginarmi chi abbia concepito (per
modo di dire) un simile obbrobrio grafico. Lui invece, Basho, è
semplicemente straordinario. Tutto quello che Coetzee può dire di Bach, e
Quirino Principe di Mahler, vale per me come giudizio su Basho.
Visionario, eccentrico, colto, spiritualmente figlio di La Monte Young e
Pete Seeger insieme, Basho ci ha lasciato splendidi raga contaminati
dal country americano, blues diluiti in folk giapponese. Voce stupenda e
possente. Tutto in lui è fiore e meraviglia: un gigante.

Cosa farà l’umanità per mantenere in vita simili valori è un mistero,
ma se l’odiato digitale riuscisse nell’impresa sarò felice e
riconoscente.

Il disco di Barry è mediocre. John Barry è stato un grande compositore,
ma ahimé il tempo passa per tutti. I suoi arrangiamenti orchestrali
sono appesantiti e le composizioni hanno la freschezza del pane del
giorno prima. Chris Botti è insipiente. Ha proprietà di linguaggio, è
tecnicamente preparato, ha anche un bel suono e un buon fraseggio ma non
ha nulla da raccontarci; ci dice cose banali con lo stesso tono di chi
conversa in spiaggia sotto l’ombrellone.

Habanera è un disco mainstream di un pianista polacco dotato, ma
non brillante: Bill Evans, Paul Bley sono suoi maestri, Tomasz Stanko e
Krzysztof Komeda i suoi ispiratori. Pochi sanno che la Polonia ha
prodotto fior di jazzisti negli anni Sessanta. Il jazz e il free jazz,
in particolare, erano tra le forme artistiche musicali più apprezzate
dall’establishment politico dei paesi dell’Est poiché, provenendo da una
voce sofferente degli Stati Uniti d’America (la controcultura
afroamericana della campagna e dei ghetti), dava modo al partito
comunista di sviluppare una critica spietata nei confronti della società
americana.

Il buon pianista polacco non diventerà mai un nostro eroe, ma a
differenza di Botti, ha un’anima musicale e una sensibilità che ci fanno
apprezzare la sua musica e le sue ingenuità.

La musica Rai nasce in Algeria nei primi anni del Novecento. All’inizio
è una sorta di lamentazione poetica di origine araba, poi le culture si
mescolano, la modernità compie il suo corso, le popolazioni si
contaminano e da fatto familiare e vernacolare diventa cultura pop.
Bella la raccolta che sto ascoltando. Intensa, vera, mai banale.
Svolazzi di strumenti a corda, fiati, tamburi fanno da contrappunto ai
soliti insistiti ritornelli tipici del Rai. Il canto è straziante,
energico, sensuale. Non si capiscono naturalmente le parole, ma lo sai
già che il cantante di turno sta parlando di delusioni amorose, di
ingiustizie sentimentali e sociali, del cattivo, dell’innocente, del
crudele destino e cosi via.

Dorothy Ashby era un’arpista. Non una grande musicista, ma esperta di
uno strumento sufficientemente esotico ed unico nel panorama jazzistico.
Se avesse suonato qualcosa di più usuale come il sassofono non ne
avremmo mai sentito parlare. Con la sua arpa invece ha fatto parecchia
strada ed una discreta carriera. La copertina ci mostra un viso
interessante. La sua musica è piacevole, il relax, cercato e promesso, è
arrivato puntuale e preciso. Non ci delude.

Vernon Reid è un talentuoso e brillante bassista, protagonista di una
grande carriera al fianco di eccellenti e importantissimi protagonisti.
Il suo cd è poliedrico, molto dinamico e risente delle sue produzioni
musicali per Living Colour e Salif Keita. È un bilanciato cocktail di
Africa e rock insieme. Non mancano citazioni hip hop e soul. È una vera
scoperta.

Mentre ascolto (sono quasi alla fine del cd) accosto e parcheggio. Da
fermo ascolto ancora un po’. Fino alla fine. Poi spengo. Sono arrivato.
Arrivederci.

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 78. Te lo sei perso? Abbonati!

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