Categorie: Musica

Luigi Nono, l’eterno ritornare: il Prometeo nell’ex Chiesa di San Lorenzo, Venezia

di - 1 Marzo 2024

Durante questo 2024, a 100 anni dalla nascita, si ascolterà parecchia musica di Luigi Nono. Anzi, si è già cominciato ad ascoltarne. Ma, al di là delle esecuzioni, il ritorno a uno dei protagonisti della ricerca musicale europea offre lo spunto per una riflessione sull’evolversi della ricezione di questo autore e sulla sua odierna collocazione in ambito storico-critico.

Fra il 22 e il 25 gennaio, la Filarmonica della Scala ha riproposto Como una ola de fuerza y luz, pagina complessa per organico e contenuti. Proprio nella Sala del Piermarini, il 28 giugno 1972, se n’era avuta la prima assoluta, con interpreti profondamente legati al compositore, come il direttore d’orchestra Claudio Abbado e il pianista Maurizio Pollini. In Italia erano anni di lotte sociali e l’incontro con questa partitura, come altre di Nono, politicamente “esposta” (il testo cantato, alla vigilia del golpe di Pinochet, era ricordo e denuncia per la morte del rivoluzionario cileno Luciano Cruz) non poteva non accendere polemiche e dibattiti. Riascoltare questa musica, affidata ad attuali esecutori di spicco, il direttore Ingo Metzmacher, il pianista Pierre-Laurent Aimard, che di Pollini ha raccolto l’eredità come interprete di repertori di ieri e di oggi, il giovane soprano spagnolo Serena Sáenz, Paolo Zavagna alla regia del suono che era stata dello stesso Nono, significa anche rileggere con la lente del tempo – forse perduto – qualcosa che appartiene ormai alla storia, senza per questo essere entrato nel repertorio, e perciò senza essersi trasformato in prodotto culturale.  Purtroppo o per fortuna, è ancora presto per dirlo.

Luigi Nono era nato a Venezia, il 29 gennaio 1924. Quel giorno di 100 anni dopo, nell’austera chiesa sconsacrata di San Lorenzo, oggi Ocean Space, si dava l’ultima delle quattro esecuzioni di Prometeo, il suo testamento artistico e umano. Lo riproponeva Biennale Musica. La singolarità, un po’ come era avvenuto alla Scala, sta nell’aggiungersi alla ricorrenza del centenario il quarantennale della prima assoluta del lavoro proprio nel luogo dove nacque. Come recita il prosieguo del titolo, Prometeo è Tragedia dell’ascolto: non certo opera lirica (come non lo sono le due azioni sceniche che precedono, Intolleranza ´60 e Al gran sole carico d’amore), ma un´imponente sessione d’ascolto (durata intorno alle due ore e mezzo) nutrita di riferimenti al mito greco elaborati da Massimo Cacciari, nella quale il Phonos è condizione, hic et nunc dell´ascoltatore, accadimento carico di storia personale e, insieme, universale.

E, parlando di storia personale, il ricordo di chi, come il sottoscritto, quel 25 settembre del 1984 era parte del pubblico, s’è rianimato più che nei flash degli episodi (per esempio, l’allora ottantenne Maestro Goffredo Petrassi che, venuto apposta da Roma, si lamenta per le scomode poltrone) nella piena consapevolezza che quella Tragedia dell´ascolto fosse una sorta di prototipo, un work-in-progress, laddove quella di qualche giorno fa pareva una fuoriserie chiavi in mano. Fra i solisti di quella storica produzione erano di nuovo a San Lorenzo solo il trombonista e tubista Giancarlo Schiaffini e il flautista Roberto Fabbriciani. Non ci sono più il clarinettista Scarponi, degnamente sostituito da Roberta Gottardi, e neppure il grande contrabbassista Scodanibbio. Non c’è più Claudio Abbado, sodale e amico di Nono come 12 anni prima alla Scala.

“Prometeo” nella chiesa di San Lorenzo a Venezia, settembre 1984

Non ci son più le scomode sedute e non c’è più l’arca lignea, ambiziosa operazione di macroliuteria creata da Renzo Piano, sospesa a quattro metri da terra, e all´interno della quale il pubblico viveva l’inedita esperienza, oggi personale memoria di uno spazio acustico esclusivo – forse anche “escludente”, nel senso di non-dispersivo, un concentrato sonoro che ti faceva sentire voci e strumenti, ma soprattutto il loro trattamento elettroacustico, assai più vicine che nella recente occasione. Non a caso Alvise Vidolin, maestro nel trattamento del suono elettronico, altro compagno di viaggio del Prometeo noniano fin dalla nascita e ancor oggi protagonista di questa rinnovata edizione, parlava di ascolto cameristico. Del rapporto di Piano con Nono per il Prometeo, fino al 16 marzo si può trovare testimonianza in una mostra ai Magazzini del Sale, realizzata dalla scuola di scenografia dell’Accademia delle Belle Arti, in collaborazione con Biennale ASAC – Archivio Storico delle Arti Contemporanee.

Ricordo che ci si chiedeva, una volta scomparso il compositore, come si sarebbe potuta preservare la prassi esecutiva originaria. S’è provveduto recentemente, realizzando un’edizione critica che ha sancito la miglior redazione possibile di quel lavoro. Anche altrove, ad esempio a Parma nel 2017, era stata utilizzata la partitura definitiva, ma l’enorme spazio del Teatro Farnese non aiutava l’ascolto a tutto tondo dell’opera. 40 anni fa, l’arca lasciava solo immaginare l’evocazione dei cori battenti di San Marco, le ansie del compositore nel far rivivere gli interstizi che liberano il suono fra i silenzi veneziani.

Ora, di nuovo a San Lorenzo, la distribuzione simmetrica delle volumetrie, obbligata per via della separazione imposta dalle grate ricollocate di recente, e che dividono in due lo spazio, riportava il pensiero alle musiche dei Gabrieli, alle quali Nono non mancava di far riferimento negli incontri pubblici, e nasceva per esaltare i delicatissimi retrogusti del Phonos, ad esempio per movimentarne le particelle sonore. Grazie all’uso delle tecnologie digitali in grado di simulare gli originari Vocoder o Halaphone, gestiti in tempo reale dall’allora avveniristico processore 4I, il nuovo ascolto è così risultato scorrevole, dinamico nel suo agire nello spazio, dal quasi impercettibile al fortissimo lacerante, dirompente, lontano erede dell´iniziale stagione compositiva noniana. In una parola, impeccabile.

Ho portato a San Lorenzo un piccolo gruppo di miei studenti. Il giorno dopo, quello del compleanno, siamo stati alla Giudecca per far visita alla Fondazione. Nuria, moglie di Nono e figlia di Arnold Schönberg, ci ha accolto con grande cortesia. I ragazzi cercavano la partitura dell’edizione critica, 320 Euro. Volevano vedere il Neuma. Il segno scritto resta un riferimento per l’allievo di conservatorio, l’ascolto mediato, filtrato dalla visione di un codice. I ragazzi sono rimasti incantati anche dai colori che Nono usava nei suoi manoscritti, intensi saggi di Augenmusik. Vero è anche che «La partitura non è l’opera», come scrive il direttore del Prometeo, Marco Angius, ma, si sa, anche l’occhio vuole la sua parte.

Tornare a Nono 40 anni dopo, alla Scala come a San Lorenzo, è motivo di confronto oltre che con la parte sostanziale di una vita vissuta, con la possibilità di immaginare e, forse, finalmente, riconoscere una sfida vinta dal compositore veneziano. Alla fine di quell’esecuzione del 28 gennaio scorso, dopo aver tentato di rivivere lontani, quasi favolosi frammenti di mitologia acustica, in realtà resta, come si diceva all’inizio, la riflessione proprio sul tempo trascorso da allora a oggi, sulla storia di una ricerca, quella di Luigi Nono, che proprio il tempo ha felicemente sedimentato. Come mi disse Claudio Abbado, con lucida visionarietà a Vienna in un giorno del 1994, a proposito della figura del maestro veneziano: «Un classico».

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