Vi sono festival monografici, “dedicati” (al pianoforte e al clavicembalo, alla ghironda e al kantele, alla musica del Nunavut e a quella Cajun), e vi sono festival che non lo sono, festival-contenitore. Nei primi è relativamente facile trovare il sentiero da seguire. Nei secondi no, il sentiero te lo fai tu, cercando, a naso o scientemente, di evitare scivoloni sul ghiaccio o cadute nel burrone. Transart, “festival di cultura contemporanea”, che fra Bolzano e le sue vallate ha visto passare nel settembre scorso (dal 7 al 27) la sua diciassettesima edizione, non è né l’uno né l’altro. O meglio, è tutti e due insieme. Nel senso che “contiene” – ovviamente nel tempo di un fotogramma – tutto ciò che passa per la testa al mondo delle arti audio-visive e performative, ma paradossalmente, “solo” a quelle. Così, fin dall’inizio, ci si ritrova tutti in “un’immaginaria Torre di Babele costellata di incontri e performance, sdraiati su un prato in alta quota, davanti a cubi di luce pulsanti, in ascolto dei suoni dell’aurora boreale, a contatto con le esperienze artistiche germinate a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, o nel cuore della nostra nazione, con un Requiem musicale dedicato alle vittime del terremoto”: così il comunicato-stampa del festival, che ben spiega lo spirito di una manifestazione non adatta a deboli di cuore dell’estetica, a schizzinosi dello stile e a maniaci della perfezione esecutiva.
Un giorno e mezzo, il tempo passato per l’occasione a Bolzano da chi vi scrive, può dare un’idea non certo completa ma indicativa di spirito, clima e caos (più o meno) organizzato, che caratterizzano questa congestionata e vitalissima manifestazione. Per esempio gli esperimenti elettroacustici del francese Nicolas Perret e dell’altoatesina Silvia Ploner, sfidando gli incerti del live electronics, venivano a volte sì e a volte no, e proprio a me è capitato il “no” vedendo armeggiare disperato il simpatico Nicolas fino a gettare la spugna e interrompere la performance, mentre Stellar surf dello stesso duo ci ha poi portato oltre che a vivere un viaggio sonoro e visivo fra i bagliori dell’aurora boreale anche a provare fino alle ossa l’umidità dei sotterranei del museo che secoli fa fungevano da cantina (vi si sente ancora un vago olezzo inebriante!). Probabilmente è inutile sollecitare, magari con bacchettate da suore orsoline sulle mani, più ordine e migliore organizzazione, sarebbe tempo perso e soprattutto contronatura a Transart, che va accettato così com’è, con la sua imprevedibilità. È però di un certo effetto l’inaugurazione nel cortile del Museo Civico di Bolzano, spazio che per tutta la durata del festival funziona da “hub creativo”: dopo le chiacchiere di rito, fra gli altri del direttore artistico Peter Paul Kainrath, proteico attore culturale delle attività bolzanine (è pure direttore artistico del prestigioso concorso pianistico internazionale Ferruccio Busoni, svoltosi pochi giorni prima di Transart) si aprono gli sportelli di due container che accolgono i visitatori con i segni (video, foto, oggettistica, sabbia a terra) di un’esperienza originale e drammatica, nel senso più ampio e denso di significati possibili del termine: è Operndorf Afrika, il “Villaggio-Opera” concepito dall’artista e regista tedesco Christoph Schlingensief, prematuramente scomparso. Cos’è? Immaginate uno spazio nel cuore di uno dei paesi più poveri dell’Africa – e quindi del mondo – il Burkina Faso, uno spazio “riempito” da un’idea che coniuga in modo forte invenzione artistica e integrazione sociale e politica (anche qui, nel significato arcaico di Polis): scuole e strutture residenziali e sanitarie interagiscono con laboratori, centri di produzione audio-video e residenze per artisti, il tutto progettato da un architetto originario del paese africano. I container situati nel cortile del museo ne raccontavano la vita attraverso le citate testimonianze. C’erano anche alcuni dei film di Schliegensif. Peccato che, anche se arrivato puntuale il pomeriggio successivo all’apertura in un “Hub” tanto deserto quanto strapieno era la sera prima, io avrei voluto vederli. Invece, con tutta la buona volontà delle incolpevoli assistenti, non è stato possibile. Comunque quel che s’è visto è bastato per testimoniare di un’idea attraverso la quale il concetto tradizionale, neocapitalistico/mercantilizio di arte viene, anche se solo illusoriamente e per un attimo, incenerito da una volontà ri-creativa antica ma al tempo stesso presentissima a se stessa; di più, originalmente proiettata al futuro. Idea rivoluzionaria e visionaria ad un tempo. Rivoluzionaria perché i tre punti fermi del progetto, creazione artistica, istruzione e assistenza sanitaria coincidono guardacaso con quelli propugnati dalla Revolución cubana. Vabbè, il Che e Fidel mettevano la difesa armata al posto dell’arte, ma qui in un certo senso non siamo lontani. Non che Schlingensief, quando era in vita (fra il 1960 e il 2010) abbia mai fatto il comunista combattente. Anzi, aveva persino lavorato nel sancta santorum wagneriano di Bayreuth curando la regia di un Parsifal nel 2004. Poco più tardi però, complice forse la malattia che se lo porterà via, rifletterà sulle ragioni profonde del Poiein, del fare arte. Ecco allora che la parola Oper assume più valenze, tutte forti: opera come lavoro sul campo, come teatro, come opera d’arte: e viene subito in mente, ancora una volta in chiave wagneriana, meglio: post/post-wagneriana, il Gesamtkunstwerk, l’”opera d’arte totale”. Opera rivoluzionaria dunque, e, si diceva, visionaria. Formazione e produzione, invenzione e didattica, creatività e convivenza sociale: questi gli ingredienti di un progetto che è facile definire utopistico, molto più difficile realizzare e portare avanti, come sta facendo Aino Laberenz, compagna dello scomparso Christoph, che era presente a Bolzano per raccontare l’impresa (purtroppo in rigoroso idioma germanico senza traduzione: da quelle parti butta così, l’italicum vien sempre dopo, quando viene). Continuando a pensare e a credere con convinzione che di arte si tratti. Non di semplice assistenza sociale, magari di azione missionaria laica o, peggio del peggio, di neocolonialismo all’europea.
Défaillances organizzative a parte, il solo Operndorf Afrika sarebbe valso a promuovere Transart. Ma nelle poche ore di presenza a Bolzano anche altro d’interessante, intelligente, sin raffinato, si è potuto vedere. E d’intensamente originale.
Intelligente e raffinato il contributo del compositore, performer e videomaker canadese Martin Messier, che presenta l’audio-installazione Boîte noire, una teca di vetro sospesa a mezz’aria, riempita di fumo e attraversata da raggi luminosi. L’installazione incanta nel suo lento movimentarsi, e nel disegnare sulla parete di fronte il risultato grafico-visivo di tale movimento. In queste occasioni si vorrebbe fare come i bimbi, rompere il giocattolo per capire com’è costruito, ma non si può. E allora, come gli adulti, ci si concede il lusso dell’incanto senza veli, perché l’arte, come la borsa, è un gioco, ma a differenza della borsa ti permette di essere bimbo senza vergognarti (o suicidarti). A sua volta Messier è caro a Transart, perché pochi giorni dopo l’apertura sarebbe tornato a Bolzano con un’altra produzione firmata a quattro mani con Anne Thériault.
Intelligente e assai accattivante anche l’installazione Squares do not (normally) appear in nature che risale al 2014, opera di OHT (Office for Human Theater), un “collettivo” di giovani italiani capaci, attraverso “tredici esperimenti visivi e sonori”, di metabolizzare in una sorta di oggetto scenico autoreferenziale l’incontro virtuale con uno dei maestri dell’astrattismo, Josef Albers. Incontro pensato dall’autore del lavoro, Filippo Andreatta, che ha usufruito di una residenza e quindi del sostegno, fra gli altri, della Josef and Anni Albers Foundation di Bethany, nel Connecticut, per inventare qualcosa di originale e, per l’appunto, accattivante. Installazione perché, pur sedendosi come a teatro, in realtà non si assiste a un’azione teatrale, dal momento che gli attori non ci sono, sostituiti da oggettistica, di scena e non, da automatismi di situazioni (“movimenti meccanici e meraviglia” realizzati da Paola Villani), ma soprattutto da protagonisti assai poco convenzionali della scena: luce, colore, vento, caratteri a stampa… Il tutto concentrato in uno spazio cubico aperto, dove la voce fuori campo agisce da commentatore ora ponderoso ora ironico. Assenza di attori come correlato dell’assenza di oggetti formalmente riconoscibili, segno distintivo della lingua pittorica astratta. E non a caso la figura storica su cui il lavoro si basa è quella del grande astrattista Albers, costretto a lasciare l’Europa e il Bauhaus per gli Usa. Buffa ma significativa la reazione dei presenti dopo il risuonare di Rolling Stones sui titoli di coda: qualche istante d’imbarazzato silenzio, poi si cede alla tentazione naturale dell’applauso, creando così un inconsapevole cortocircuito all’interno dell’ambigua collocazione storico-linguistica della produzione. Che è fra l’altro godibilissima sotto ogni prospettiva di lettura e di fruizione. Una “cosa” che, come spesso capita di dire in questi casi, misura la qualità della proposta in base al desiderio di rivederla. Se non questa, altra produzione sarà possibile vedere di un gruppo di belle menti pensanti artisticamente (ai citati si aggiungano i nomi di Chiara Spangaro per la ricerca scientifica e Roberto Rettura per le musiche), proprio nell’ambito della prossima stagione del Comunale di Bolzano (Curon /Graun, il 23 febbraio al Teatro Sociale di Trento).
In mezzo a simpatici diversivi di contorno, come una capoeira bahiana negli spazi interni antistanti la sala del Teatro Comunale durante la Cult/Night, si è potuto vivere anche una performance, si diceva, “intensamente originale”. Era In Many Hands, azione “interattiva” in prima italiana di Kate McIntosh, artista neozelandese di stanza in Belgio. Il perché “interattiva” è presto detto – e chi vuol seguire una ripresa dello spettacolo non legga ciò che segue… – : dopo un rapido lavaggio igienico-rituale della mani, il pubblico, contingentato in più turni, è invitato sul palco del teatro bolzanino a sedersi lungo tre tavoli disposti a triangolo. Inizialmente sul lato interno, in modo da non vedere, a luci accese, ciò che avviene ai propri lati e alle spalle; in un secondo tempo, spostatosi di posizione, verso l’interno, ma con le luci del palco completamente spente. Unica condizione, non conoscere i propri vicini di sedia, con i quali si deve però instaurare un intenso, quasi sensuale contatto attraverso lo sfiorarsi delle mani. Lentamente, scorrendo da un lato all’altro dei tre tavoli, come un rosario passa dalle mani palpeggianti e dal naso odorante degli astanti tutto un mondo di oggetti e frammenti vegetali/animali, materiali essenzialmente organici, a volte riprodotti, a volte nature. Tutto, come si usava dire un tempo, “per vedere l’effetto che fa”. E l’effetto è quanto di più “spettacolare” si possa immaginare: sorpresa e compiacimento, piuttosto che ribrezzo e sgomento, urletti, risolini, ammicchi e via discorrendo. Effetto ovviamente amplificato nel dominio dell’oscurità. Gran finale con il “naufragar nel mare” di palline bianche che, fuoriuscendo da placente plasticate, inondano lo spazio. Rubando all’allampanata, garbatissima Kate qualche minuto durante il riassetto fra un turno e l’altro, colgo che, realizzata l’idea, in modo davvero assai efficace, l’artista vive la stessa realizzazione come una sorta di bottiglia lanciata in mare, limitandosi a constatare, magari con una punta di curiosità statistica, la reazione del pubblico che di volta in volta celebra il rito. In prima da noi, e al netto di certa durezza/freddezza squisitamente altoatesina, Kate dice che la reazione italiana le piace per intensa partecipazione, ma non appesantita da certa rumorosa disinibizione constatata in paesi anglosassoni. Chissà com’è andata nei giorni successivi alla ripresa della performance/esperimento al Metastasio di Prato? Magari qualcuno fra chi legge c’è stato, allora ce lo racconti. Un fatto è che questo In Many Hands mischia, anzi, fa mischiare intimità ed esibizionismo, alto e basso corporale, come avrebbe detto Mikhail Bachtin, in modo irrazionalmente superlativo. E anche qui, come con OHT, anche se per ragioni ben diverse, vien voglia di riprovarci.
La giostra di Transart sarebbe continuata per più di due settimane, con artisti e performer diversi e distanti. Qualche nome fra i tanti: da Roman Signer e John Luther Adams a Ingrid Hora, altro “genius loci” con una prima assoluta dedicata ad antichi rituali della fertilità in Val Venosta, dall’omaggio a David Lynch con la pianista Eve Egoyan e la compositrice Nicole Lizee fino al Requiem Stringeranno nei pugni una cometa di Silvia Colasanti con testi poetici di Mariangela Gualtieri letti dalla medesima. Transart: forsennata fiera del “tutto fa arte” cui auguriamo lunga vita.
Luigi Abbate