16 novembre 2017

MUSICA

 
Uno “Stiffelio” da brividi al Teatro Regio, con la grande regia di Graham Vick. Ecco qialche pillola del Festival Verdi di Parma
di Luigi Abbate

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Ormai è una consuetudine a Parma: Teatro Regio e Lenz Fondazione viaggiano a braccetto nella rilettura ora di miti – di quello di Prometeo ho reso conto in un precedente contributo di Musica  – ora del genius loci, nel cartellone del Festival Verdi che è appuntamento di tradizione ottobrina nella città ducale. 
Verdi/Parma un po’ come Donizetti/Bergamo o Pergolesi-Spontini/Jesi: tutti a imitare Rossini/Pesaro che a sua volta tanti anni fa ha guardato a Mozart/Salisburgo o Wagner/Bayreuth, ovvero alla celebrazione del beniamino locale ma anche, per i musicisti italiani, la riscoperta di titoli dimenticati associata allo studio e alla riproposta dei testi e dello spirito originale delle partiture fissate in edizione critica. Titoli poco o nulla presenti nei teatri programmati accanto ai capolavori di sempre. Quest’anno l’attenzione è caduta sui sempreverdi Traviata e Falstaff (bella qui la regia di Jacopo Spirei con Riccardo Frizza direttore) associati a Jérusalem, versione francese de I Lombardi alla Prima Crociata, e Stiffelio. Opera, quest’ultima (1850, libretto di Francesco Maria Piave) meno conosciuta di quanto meriterebbe, per densità psicologica e attualità (di oggi come di allora: lo scandaloso, per l’ipocrisia di quel tempo, more uxorio di Verdi con la Strepponi) del soggetto, drammaturgia sapientemente disegnata, qualità della scrittura vocale, corale e strumentale. Dopo averlo sottratto all’oblio nel 1968, ancora una volta Parma conferma un’attenzione speciale per questo titolo, e offre un bell’assist a Stiffelio chiamando alla sua regia l’inglese Graham Vick, figura di punta della scena lirica internazionale, noto le sue scelte radicali e la capacità di sostenerle. Radicalità confermata anche in questo suo debutto a Parma. Il regista inglese firma un allestimento letteralmente immergendolo nel fantastico spazio del Teatro Farnese, e così racconta la vicenda dell’opera: «Lina si innamora di Rodolfo Müller e lo sposa. Si scopre che è un pastore evangelista carismatico, Stiffelio. Costui trascura la moglie per inseguire la propria vocazione, lasciando Lina costantemente da sola. Lei è sedotta dalle confortanti attenzioni di Raffaele. Il padre di Lina la dissuade dal confessare a suo marito ciò che ha fatto ponendo l’apparenza esteriore e la reputazione – specialmente la sua – al di sopra della pace mentale di sua figlia. La costringe a mantenere il segreto in famiglia, sarà il loro piccolo segreto. Quando i sospetti di Stiffelio sono destati, l’uomo di Dio si scopre incapace di mettere in pratica ciò che predica; per lui le donne sono le “custodi del pudore”, mentre l’uomo racchiude in sé un “occulto nell’anime”. Il male nell’unità familiare e la rottura di un matrimonio è il coraggioso soggetto di Verdi». Alla fine vedremo come Stiffelio risolverà il rapporto con la moglie. 
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Stiffelio, Luciano Ganci (Stiffelio), Maria Katzarava (Lina), foto di Roberto Ricci
Alleggerita dai lenzuoloni stesi sulle gradinate del ligeno teatro e che enunciano proclami contrapposti gli uni agli altri (“Difendiamo la famiglia”, “L’utero e mio” etc.), e liberata da vecchi automatismi pseudoscandalistici (ma qualche “bianco-anglosassone-puritano” in abito da sera che guarda uno svolazzar di tette isteriche, l’abbraccio gay e il bacio saffico tra il falso disdegno e l’allupato lo trovi sempre), la regia di Vick è strepitosa, semplice e disarmante come a volte può esserlo un colpo di genio: collocare  in platea non solo l’orchestra (del Comunale di Bologna, sul podio Guillermo García Calvo), non solo il pubblico, ma un pubblico in piedi, itinerante insieme con le strutture mobili su cui sono situati i cantanti solisti e con loro gli arredi scenici. Personale addestrato li muove, li unisce, li allontana durante l’azione, rendendo il tutto coinvolgente. Quando Stiffelio legge pubblicamente l’episodio biblico dell’adultera, lasciando in questo modo intendere il perdono per la moglie Lina con un gesto che è al tempo stesso privato e pubblico, si alza un coro che intona il Miserere, un coro che, ascoltato come d’abitudine da platea, palchi o loggione di un teatro all’italiana può essere sentito con una certa partecipazione, ma che, se vissuto trovandosi i coristi a cantare al tuo fianco nella “vasca” del Farnese (ottimo lavoro di Andrea Faidutti), tutti insieme mischiati con figuranti, discepoli e popolo, posso assicurare che ti viene la pelle d’oca. Durante lo svolgersi dell’azione su una scena che è anche la scena degli stessi spettatori di una singolare transumanza che li rende co-attori della messa in scena – più che mai qui vale l’espressione mise en espace -, s’incrociano gli sguardi ora smarriti, ora ammaliati, ora eccitati di comuni spettatori come quelli soddisfatti di colleghi musicisti e direttori artistici. Un pubblico che forse mai come in quest’occasione si deve esser sentito tanto fisicamente vicino alla voce e alla storia dei cantanti, situati sulle strutture mobili a un metro e mezzo di altezza. Un cast al quale pure si deve il successo dell’operazione: su tutti il soprano Maria Katzarava, una Lina di straordinaria fattura vocale e sostanza drammatica, ma anche Luciano Ganci per Stiffelio, Francesco Landolfi per Stankar, il padre di lei, Giovanni Sala per l’amante Raffaele. L’accoglienza tiepida delle prime rappresentazioni di quest’opera spinse Verdi a rivederla dandole un nuovo titolo (Aroldo); ma è ormai, e giustamente, Stiffelio a meritarsi il repertorio, e con esso anche letture originali come quella proposta da Graham Vick. E, come a Parma, caldissimo successo di pubblico.
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Stiffelio, foto di Roberto Ricci
Lo si diceva all’inizio: Regio e Lenz Fondazione sembrano viaggiare a braccetto. Ospite abituale del Festival Verdi, il teatro di ricerca parmigiano più radicale – e uno dei più radicali del panorama italiano – trova nella radicalità di Vick (tutt’affatto differente, sia chiaro) un argomento comune. E non pare un caso che tale comunanza passi attraverso l’idea di far muovere il pubblico in uno spazio teatralmente anomalo, cioè pensato in origine per altri scopi, per altre funzioni: “naumachie” et similia per il Teatro Farnese, l’improbabile revival in chiave postmoderna del fiorentino Ponte Vecchio, con botteghe allocate sulla campata e affiancate da una strada carrozzabile, per il Ponte Nord. Realizzata intorno al 2012 senza le debite autorizzazioni, in un periodo particolarmente buio della recente storia amministrativa di Parma (a seguito del quale, detto per inciso, la città emiliana per reazione s’è trovata a essere il primo capoluogo di provincia in Italia con un governo a giunta pentastellata), e quindi rimasto per anni inutilizzabile (un danno per le tasche del Comune e quindi dei contribuenti), l’incombente struttura di vetro e acciaio che si vede anche dalla vicina ferrovia è stata vissuta e umanizzata da Lenz con una produzione dal titolo Paradiso. Un Pezzo Sacro. Anche qui la parola agli autori. Maria Federica Maestri, che ha curato elementi plastici, costumi e regia del site-specific, ben sintetizza: «L’installazione riempie lo spazio di involucri-sarcofagi molli sacchi mortuari collocati a terra, all’interno dei quali forme pesanti emettono suoni e movimenti fino a presentarsi progressivamente con forme umane. L’opera scenica realizzata per il Paradiso si innesta sulle figurazioni sacre di Piero della Francesca per farsi pienamente contemporanea secondo la lezione delle ‘pitture’ immaginifiche di Jannis Kounellis. L’innalzamento dal basso all’alto progredisce di pari passo con l’intonazione, prima singola e poi corale, delle Laudi. Altre figure femminili, attrici storiche di Lenz e dei diversi laboratori sensibili, accompagnano la moltitudine verso il piano superiore, attraversando scale e percorsi testuali, visuali, di luce fino a raggiungere la condizione del distacco definitivo, della sparizione dei corpi, di cui rimangono soltanto scie materiche oscillanti». Maestri cita Kounellis. Per restare in tema, nella fortemente suggestiva immagine del piano terra, con le figure femminili che cantano posizionate a terra e raccolte nei loro speciali sacchi a pelo – i “sarcofagi” – il pensiero va anche al Cattelan di All, esposto presso la veneziana Collezione Pinault a Palazzo Grassi: sudari in marmo bianco di Carrara che rimandano alle salme pietosamente coperte di un recente terribile conflitto. 
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Lenz Fondazione, Paradiso. Un Pezzo Sacro – © Francesco Pititto
Il pubblico si muove come in una laica e al tempo stesso mistica Via Crucis, occupando nel corso di dodici sequenze tre livelli di uno spazio vastissimo, abitato da forte concentrazione emotiva, acusticamente enfatizzata dall’impasto d’un suono che tratta – qui l’intervento rielaborativo sulle armonie e nell’alterazione temporale degli originali come di consueto per Lenz era opera di Andrea Azzali – i Quattro Pezzi Sacri, estremo capolavoro verdiano, alternata o mescolata con l’emissione naturale prodotta da trenta coriste dell’Associazione Cori Parmensi istruite da Gabriella Corsaro con grande perizia, specie tenendo conto dei citati posizionamenti. Ad esse si affiancano venti performer del teatro, a far la somma di cinquanta presenze sceniche per un polittico in bianco e nero ma di grande presa emotiva. E come il suono verdiano viene “reinventato” nei modi appena descritti, lo stesso avviene per la parola dantesca, parola solo evocata, sognata, reimmaginata in modo visionario nella drammaturgia e imagoturgia dell’altra anima autorale di Lenz Fondazione, Francesco Pititto: «Nel canto trentatreesimo della terza delle tre Cantiche, la Trinità come un buco nero gravitazionale, ormai raggiunto il collasso, ingoia l’universo delle terzine e degli incontri precedenti. Gli endecasillabi diventano mondi, pianeti, astri e galassie e tutto esplode nella sfera di Luce come la più potente delle Supernove. Al limite del reale, al limite e oltre il linguaggio. E non c’è più parola, solo canto, visione, pura intuizione, abbandono, silenzio». 
Tentando una riflessione complessiva, chi ha avuto modo di seguire entrambe le produzioni può aver vissuto esperienze analoghe e in un certo senso complementari. Certo è che in Paradiso, come nello Stiffelio di Verdi-Vick, il pubblico non può distrarsi, appisolarsi, annoiarsi, non può fuggire dallo spazio che lo accoglie, deve confrontarsi con quello stesso spazio al cui interno è coinvolto quasi fisicamente, dove la prossimità con i cantanti, gli attori, opera una suggestione esoterica e introspettiva al tempo stesso. E poco importa se nell’organico di Paradiso. Un Pezzo Sacro sono coinvolti i cosiddetti “attori sensibili” – bravissimi, citiamoli: Paolo Maccini, Delfina Rivieri, Franck Berzieri – tanto cari all’”impegno” (una parola ormai da mettere fra virgolette, pensa un po’!) e alla poiesis di Maestri e Pititto. È un contributo di umanità che può non dare necessariamente valore aggiunto allo spettacolo, ma che sicuramente può, se lo vuoi, esaltare un “pathos” che non sempre vivi a teatro, proprio come quei coristi nel finale di Stiffelio, che ti cantano accanto, cantano sì un Miserere, ma soprattutto cantano una condizione umana che è anche la tua condizione umana.
Luigi Abbate 

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