Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
« L’art dans son ensemble n’est pas une vaine création d’objets qui se perdent dans le vide, mais une piussance qui a pour but e doit servir à l’évolution et à l’affinement de l’ âme humaine.». Parole conosciute, queste di Kandinsky, ma sempre di grande intensità alla loro lettura. La citazione, rigorosamente in francese, sta nella presentazione firmata da Carolina di Monaco, Principessa di Hannover, del numero unico che accompagna il programma generale del Festival Printemps des Artes, prestigiosa rassegna musicale che si tiene appunto in vari luoghi del Pincipato di Monaco. Sulle prime è difficile pensare a un luogo al mondo più distante dall’idea di presentare concerti di musica “contemporanea-colta” – apro parentesi: che razza di definizioni bisogna inventarsi per circoscrivere un ambito di genere e di stile. Fino a pochi anni fa Stockhausen, Berio e Boulez erano “musica contemporanea” e basta (e in tedesco non va meglio: era la Neue Musik). Ormai da tempo ci si è accorti che sono musica contemporanea anche generi eredi del Noise Rock come il Djent o il Dubstep, oppure Anomalie, dj francese di punta, o, ancora, Kendrick Lamar, il rapper premiato qualche giorno fa con il Pulitzer, e allora i citati guru delle avanguardie, oltretutto già morti e storicizzati, sono condannati a essere “contemporanei-colti”. Chiusa parentesi –. Dicevo, difficile immaginare un luogo più distante di Montecarlo dalla musica di ricerca, nuova e nuovissima. Dice: ma perché? In fondo laddove c’è molto denaro c’è anche un mercato di grandi collezionisti d’arte, ma collezione non fa necessariamente rima con creatività e, lo sappiamo, la musica moderna e contemporanea non riscuote la stessa attenzione dell’arte moderna e contemporanea, dal momento che l’arte ha un mercato, la musica no. Eppure, ormai da oltre trent’anni, fra marzo e aprile, in questo piccolo stato sovrano inserito nel midi francese, celebre per il Grand Prix di Formula 1, l’esenzione fiscale e la sfrenata speculazione edilizia, lo sfarzo di Ferrari, Rolls e fuoribordo ancorati nel porto, è possibile vivere esperienze d’ascolto di notevole originalità, oltre che naturalmente di alta qualità interpretativa. Merito certamente del direttore artistico, Marc Monnet, compositore e brillante organizzatore musicale di école parigina, che negli ultimi anni si è guadagnato la fiducia della Princesse de Hanovre, quest’ultima sensibile non solo al grande spettacolo circense ma anche agli esiti dell’attuale complessa creatività musicale. Dunque, quelle parole di Kandinsky, almeno nelle migliori intenzioni di chi anima e produce questa iniziativa, suonano un concreto proposito d’attuazione. E allora non soltanto musica antica e classico-romantica, ma, appunto, anche moderna e contemporanea, in ciò includendo anche novità assolute prodotte per l’occasione. L’edizione di quest’anno si è inaugurata il 16 marzo scorso per chiudere i battenti con una coda nel segno della danza, fra il 26 e il 29 aprile prossimi.
Printemps des Artes
Ulteriore motivo d’interesse è dato dall’intelligente intrecciarsi di temi e musiche anche distanti nel tempo e nello spazio, che Monnet ha inteso far dialogare non solo nel corso dell’intera programmazione del festival, ma anche all’interno di ogni singolo concerto. Succede così che Musiques américaines e Mozart, argomenti tematici in primo piano, si ritrovano a convivere con un terzo fil rouge, le quattordici Sequenze di Luciano Berio, non imposte tutte d’un botto ma garbatamente offerte come confetti in apertura di altrettanti concerti. E accanto a questi tre temi si apparivano Jeunes talents, un focus sul clarinetto, l’opera Quatto giovani fanciulle del russo Edison Denisov presentata in forma di concerto. E ancora, tavole rotonde al Théâtre Princesse Grace, masterclass, un interessante workshop, Iannix, sui rapporti fra suono elettronico e sua traduzione in interfaccia grafico, una residenza offerta al compositore Yan Maresz, monegasco trapiantato a Parigi, genius loci che ha collaborato con la locale Accademia di Musica e con conservatori regionali francesi nella produzione di suoi lavori. E infine un Voyage surprise, concerto itinerante dal programma mantenuto top-secret fino all’ultimo giorno (quest’anno il 2 aprile con, fra l’altro, musica indiana di tradizione). Insomma, tutti gli ingredienti di un festival musicale in piena regola, tenuto insieme con raffinata sensibilità e maestria organizzativa. Un dettaglio, non secondario: il catalogo generale del festival è corredato da fotografie di Monaco, opera di Gabriele Basilico che provengono dal Nouveau Musée National de Monaco. E già che ci siamo, val la pena dar conto dell’esposizione Alfredo Volpi – la poétique de la couleur, che lo stesso museo, situato nella splendida Villa Paloma, ospita fino al 20 maggio. Prima significativa mostra fuori dal suo paese di adozione – con prestiti dall’Instituto Moreira Salles e dal Masp – dell’importante pittore brasiliano di origine lucchese, in grado di offrire il suo contributo all’astrattismo latino-americano, fra l’altro attraverso l’originale stilizzazione delle bandeirinhas.
Come capita in occasione di manifestazioni che si dipanano nel corso di oltre un mese, bisogna scegliere per darne conto, ed io ho scelto lo spicchio del week-end pasquale, che proponeva due concerti “americani” e un programma interamente mozartiano. Partiamo da quest’ultimo, e anzitutto dalla cornice d’ascolto, la deliziosa bomboniera dell’Opéra Garnier, versione bonsai della celebre sala parigina, incastonata nel Casinò monegasco, stucchi dorati e acustica magnifica, esaltata da una pianta leggermente allungata ai lati che consente maggiore approssimazione al palcoscenico anche al pubblico seduto in fondo. Un colpo d’occhio e un piacere d’ascolto che si sono apprezzati particolarmente nel concerto mozartiano affidato all’Orchestra of the Age of Enlightenment guidata dal suo direttore onorario, Roger Norrington, fresco dei suoi ottantaquattro anni compiuti un paio di settimane prima del giorno di Pasqua, data del concerto. Freschezza anche di suoni e colori strumentali nella compagine britannica, che Norrington ha diretto seduto e senza baton, dando l’impressione di stimolare ancor più nei suoi esecutori quel piacere del far musica insieme che vede la prassi esecutiva storicamente informata non più come elemento di originalità, come un vestito d’epoca, ma appunto come prassi, strumento al servizio del buon gusto, del piacere di suonare: come avrebbe detto Roland Barthes, di una gourmandise du jouer. In realtà l’impressione è stata ben percepita nelle due sinfonie in programma, la numero 33 K. 415 in apertura e la Linz in chiusura, meno invece nei concerti per corno, il primo e il quarto, dove gli antichi strumento del pur eccellente solista Roger Montgomery han denunciato i limiti (o, se si vuole, di certo il fascino per i cultori della filologia) dello strumento naturale, che suona sugli armonici del taglio di tonalità, re per il K. 412, mi bemolle per il K. 495.
Printemps des Artes
Antipasto del programma mozartiano, una delle citate Sequenze di Luciano Berio, la quinta per trombone, ispirata al celebre clown Grock, evocato nel fonema WA e nel gesto improvviso sulla nota d’apertura. David Bruchet-Lalli la rende con efficacia, sia per la brillante qualità esecutiva, sia immedesimandosi nel personaggio circense nel maquillage come nella movimentazione.
Anche il giorno prima, sabato, nella stessa sala, il concerto si era avviato con una Sequenza, la quarta per pianoforte. Tornando al discorso iniziale, Berio, e soprattutto questo Berio degli anni Sessanta, lo si voglia o no, è repertorio, è storia della musica, e in quanto tale a livello interpretativo non esiste più distanza da un classico. L’interpretazione della Sequenza per pianoforte passa dunque al vaglio della critica e del pubblico allo stesso modo di una Sonata di Beethoven o dei Notturni di Chopin. Anche qui, come nella precedente, l’esecuzione del giovane pianista Julien Blanc è stata impeccabile. Strumento protagonista dell’intero recital, al pianoforte solo ne è stato affiancato un secondo, intonato un quarto di tono sotto il primo. In programma i Three Quarter-Tone Pieces per due pianoforti, brano straordinario di Charles Ives, il padre dei pionieri musicali a stelle e strisce. La riflessione nei confronti di questa pagina ci porterebbe lontano, dal momento che la scordatura, meglio bisognerebbe dire, la “disintonazione” di uno dei due strumenti rappresenta simbolicamente, quasi antropologicamente, l’elemento dialettico fra una sorta di status istituzionale sancito in musica come il temperamento equabile (le dodici note della scala cromatica precisamente distanziate per semitono) e un’intonazione che collide strutturalmente, oltre che acusticamente, con quello stato. Pensando solo all’aspetto acustico l’effetto è stupefacente, e i due pianisti, Bertrand Chamayou e Tamara Stefanovich ce lo hanno servito su un piatto d’argento.
A seguire, Chamayou resta solo sul palco per un altro capolavoro di Ives, la Sonata n. 2 Concord, Mass., 1840-1860. Carica di rimandi filosofici e poetici, vale per la Concord Sonata il discorso fatto per Berio. L’esecuzione del pianista di Tolosa è smagliante per chiarezza di pensiero e qualità di suono, e rende consapevoli una volta di più, dell’influenza di Ives nella storia della musica del Novecento e attuale.
Printemps des Artes
Veniamo ora al piatto forte del mio week-end monegasco, l’esperienza da raccontare e ricordare. Al Musée Océanographique, dalle 19 di venerdì 30 marzo ai 5 minuti dopo la mezzanotte di sabato 31 l’esecuzione integrale del Secondo quartetto di Feldman. Con Bernstein e l’assai presente Ives – curiosamente assente Cage – uno dei compositori nordamericani omaggiati nel programma del festival, Morton Feldman (1926-1987) appare, a oltre trent’anni dalla morte, figura tre le più affascinanti del Novecento musicale. La sua opera s’interroga – e soprattutto interroga noi oggi – sui complessi rapporti fra percezione e cognizione, sui rapporti spaziotemporali legati all’epifania sonora, invitando sempre l’ascoltatore a declinare la parola meditazione in musica nei suoi significati più ampi e distanti fra loro: dalla semplice contemplazione alla profonda riflessione critica. Di questo e altro ancora è detonatore il Quartetto n. 2: una sequenza di situazioni melodico-armonico-timbriche, di frammenti proposti e alternati a momenti di pausa, il tutto senza soluzione di continuità. L’impegno, anche fisico, dell’ascolto (oltre che, ovviamente, dell’esecuzione) sta anzitutto nella necessità di una concentrazione continuativa, ingrediente di base che permetta il successivo abbandono alla fascinazione dell’evento sonoro, e la scoperta di un tessuto strumentale che si basa sulla microvariazioni degli elementi, di richiami a distanza che giocano sulla memoria a breve termine, sulla capacità magistrale di governare la macroforma proprio attraverso questi stessi microelementi. Insomma, un rito dell’ascolto (e forse dell’auto-ascolto) che chiede una disponibilità totale a mettersi in gioco. Naturalmente il contesto per mettersi in condizione di affrontare questo impegno deve fare la sua parte. E i promotori di questo rito han fatto tutto per bene. Considerando le oltre cinque ore di durata, al pubblico è stata permessa la deambulazione fra lo spazio d’ascolto, dotato non di poltroncine da teatro ma di sdraio da spiaggia che invitano il pubblico al relax se non all’assopimento, e lo spazio antistante a sua volta dotato di generi di conforto, un buffet e bevande rigorosamente analcoliche. La sala del concerto ha un parquet, perciò, dopo esser stati accolti all’ingresso del museo, nello spazio antistante si viene invitati a togliersi le scarpe e calzare candide pantofole da hotel, per mettersi comodi e al tempo stesso evitare un fastidioso scalpiccio durante il passeggio. Altri dettagli: la proiezione a video in tempo reale della partitura ripresa sulla parte del primo violino; e la proiezione sul soffitto della sala di suggestive variazioni cromatiche dell’acquamarina. L’importanza data al concerto è testimoniata anche dalla presenza, insieme con il conseiller artistique Monnet, dei regnanti: non solo Carolina ma lo stesso Principe Alberto, che si trattiene un’ora circa in un ascolto nel quale l’apparente ripetitività del procedere musicale e la dinamica soffusa costringono anche le Loro Altezze a una lotta fra livello attenzionale e il citato – e in verità poco augusto – fisiologico assopimento. La Princesse de Hanovre resta fino al termine: man mano che passa il tempo si mette anzi più a suo agio sul divano sul quale si era accomodata, cedendo alla tentazione di indossare pur ella le candide ma prosaiche babbucce. Cosa che, si parva licet, ce la rende immediatamente più “umana” e simpatica. L’impressione è che la Principessa non sia presente solo per dovere istituzionale, come imporrebbe il suo ruolo, e che non stia vivendo il rito nella forma di un ineluttabile sacrificio, ma che sia calata in un ascolto autenticamente partecipato della straordinaria partitura. E proprio a quest’ultima piace ritornare, tentando per esempio un paragone che può apparire pretestuoso, a giustificabile solo alla luce delle comune nazionalità statunitense, ma che può forse rendere l’idea della musica di Feldman se appunto messa in relazione con quella di un compositore di Feldman più popolare, Philip Glass. se infatti la musica di quest’ultimo richiama l’immagine del gioco della dama, nel quale l’unico elemento di differenziazione è dato dal colore (bianco/nero) di identiche pedine, molto più interessante nel suo processo elaborativo è la scrittura di Feldman, e in particolare del suo Secondo Quartetto, che richiama la fantasia e la ricchezza dell’artigianato manifatturiero, ma insieme la complessità strutturale dal gioco degli scacchi. Bene annota Pierre Rigaudiére nelle note pubblicate a commento del lavoro: “formalizer la désorientation de la mémoire”. Feldman è tradizionalmente associato a Rothko. Pensando a questa pagina musicale vengono in mente piuttosto i processi cui è sottoposta la percezione umana nell’Op Art attraverso la movimentazione delle opere (o intorno alle opere), piuttosto che nell’arte cinetica: l’oggetto muta d’aspetto attraverso la dinamica di un intervento attivo e congiunto di esecutori e di ascoltatori. Dunque non variazioni ma costanti e studiatissimi cambi del punto di vista. Impegno (senza dubbio di ciò si tratta) congiunto di esecutori e ascoltatori. Fondamentale il feeling che si deve instaurare fra i due soggetti. Il Quartetto Béla (la titolazione è un omaggio al grande compositore ungherese Béla Bartók, autore di sei pietre miliari dedicate alla formazione regina della musica da camera), giovane ensemble francese fondato nel 2006, ha avuto la grande capacità di mantenere vivo il contatto con un pubblico a sua volta da inizio a fine ascolto empatico nei loro confronti e nei confronti della straordinaria partitura feldmaniana. L’auspicio – forse, si dice, il progetto concreto – è di portare in Italia questa esecuzione del quartetto (presentato tempo addietro a Torino e a Portogruaro).
In conclusione, un consiglio non necessariamente turistico: può valer la pena organizzare una capatina nel principato, magari varcando la soglia del Casinò non (solo) per la giocata, ma anche per ascoltare musica importante e di qualità. Magari già l’anno prossimo. Per il programma, si dia prossimamente un’occhiata al sito: www.printepsdesarts.mc.
Luigi Abbate