Il festival resta una esperienza fortemente didattica nel misurare la temperatura di un pubblico fatalmente autodichiaratosi elettorato volontario grazie alla frenesia del televoto. C’è stato chi aveva annusato la voglia di attivismo delle masse al levar del ‘900, intuendo il potere fascinatorio della vicinanza a ogni costo (51 cents per un massimo di cinque volte). E c’è stato anche chi aveva per giunta indicato come il moderno sarebbe stato edificato da un lato sulla citazione, dall’altro sulla chiacchiera semi-specialista. Era pure stato a Sanremo ma non per cantare. A oggi, il festival si spiega con evidenza e forza ricorsiva quale fertilissimo punto di contatto tra industria musicale e società civile al punto da definirne compiuta l’osmosi. Creatura eminentemente storica per definizione in quanto festival della canzone italiana ogni anno, il plebiscito della ridondanza celebra questa settimana di melodie e dati auditel, meme e fotografie segnanti, sorrisi e canzoni.
Le formule sono spesso cambiate al pari della direzione dei diversi cerimonieri, sempre pronti a farsi benedire dallo sguardo teologico della telecamera: la musica fa da contorno saporito la cui ricetta resta segreta al pari delle patatine nei fast food. L’ingrediente più rilevante delle ultime edizioni si gioca sulle piattaforme digitali, sui video da far girare per le bacheche, ché a far girare la musica ci pensano già le radio commerciali, depositarie del fuoco sacro dell’arte sanremese. Così, la grafica di Coniglio Viola incontra il blu cobalto della Loredana nazionale mentre quel patriarca di un Achille Lauro confeziona il passato nelle immagini, l’autotune per le cuffiette e Cristicchi torna più Gazzè che mai. Questa poltiglia di vecchio e nuovo che riduce le differenze nell’indifferenza guadagna un tempo di ascolto pari all’ultima crociata politica di turno, smontata con chirurgica esattezza al sorgere del primo sbadiglio ritmato dall’autodistruzione giornaliera.
L’ho ascoltato in radio, una diretta straziante senza avere la forza di andare avanti se non per aspettare la pubblicità. Si tratta di una esperienza quanto mai lontana dalla forza attrattiva di un festival che resta il vero antesignano della music television: Sanremo è l’espressione più alta della televisione, di quella cultura da intrattenimento che resta la carta trappola delle nostre conversazioni prima, dei nostri status oggi, il vero luogo comune dal quale poter ripartire senza badare troppo al caso. Perché San Remo è saremo! Così, è la lunga durata a spiegare la fortuna di Sanremo e non l’immediatezza che quel pubblico ridotto a popolo acclama nella sua smisurata preghiera. Convivere con il festival non è esperienza conclusa con la Domenica In del giorno dopo. Semmai, è un eterno festival della canzone a fare da sfondo alla nostra vita quotidiana, portata avanti con assoluta esattezza da noi stessi in qualche modo confusi sui nostri gusti, perché personali.
*Alla fine vince Mahmood, Ultimo secondo (sembra un gioco di parole) fa polemica, terzo Il Volo. L’Ariston, per la prima volta tra fischi e grida, invoca Loredana Berté. Quarta. Perché i verdetti di Sanremo non si smentiscono mai, come i tweet di Salvini.
Antonio Mastrogiacomo