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50mila voci intonano una delle frasi storiche del repertorio: “For a minute there, I lost myself, I lost myself”. Dal palco si spengono le luci. Tutti a casa. Così, dopo il secondo encore, si è chiuso il concerto di Firenze dei Radiohead, con Karma Police, uno dei pezzi più amati dal grande pubblico, e snobbato dai fan di vecchia data, quelli che hanno ascoltato anche il più raro bootleg della band, e che sussultano ad ogni notizia che li riguarda. Di certo la canzone che li ha resi famosi in tutto il mondo.
Non starò qui a raccontarvi la loro storia, tantomeno è mia intenzione recensire il loro live di Firenze, e nemmeno convincere gli indecisi, quelli che credono che siano dei sopravvalutati, quello che vorrei raccontare è una sensazione.
Nel 1993 avevo solo 9 anni, e loro debuttavano con Pablo Honey, disco che li poneva nella scomoda situazione di “luminose promesse del rock alternativo”, Creep diventò in poco tempo l’inno di una generazione. Le speranze in loro riposte vennero confermate con il bellissimo The Bends del 1995, ma è stato nel 1997, anno della pubblicazione di Ok Computer, che li incontrai. Quando MTV trasmetteva a ripetizione l’ipnotico video di Karma Police prima, quello cinico di Paranoid Android poi, e infine quello semplice e commovente di No Surprises. La vista della strana faccia di Thom Yorke immerso nell’acqua, la sua voce, a volte spezzata e altre volte profonda, mi avevano rapito. Difficilmente a 13 anni avrei potuto capire il significato di quel canto, ma ero affascinata dalla malinconia che propagava da quelle note.
Nei minuti che mi separavano da casa a scuola, durante il liceo, tormentavo mia madre con Kid A e Amnesiac e finalmente capivo tutto, ogni frase, e accompagnavo quelle parole che raccontavano di alienazione, di solitudine, di paesaggi postmoderni, (Idioteque), di voglia di scomparire, (How to disappear completely), e di impotenza (Optimistic), con la vista desolante e desolata della provincia romana. Non ero una ragazzina triste, ma in quelle atmosfere fredde e rarefatte e in alcuni di quei testi, spesso non sense, mi sentivo compresa.
Nel 2003 ero nel pieno delle mie passioni politiche, era il momento delle grandi manifestazioni, dei movimenti, delle guerre post 11 settembre, ma anche il momento in cui bisognava decidere del futuro, e i Radiohead pubblicavano Hail to the thief, un disco fortemente influenzato dallo stato di panico e intolleranza che seguiva l’elezione di Bush, e della conseguente paura per il futuro.
All’Università avevo finalmente trovato la mia dimensione, con persone che capivano i miei interessi, che stimolavano la mia curiosità e che come me avevano capito che non potevano far altro che lasciare a qualcun’altro, sicuramente più capace, il compito di esprimere i propri sentimenti. A far compagnia ai Radiohead arrivarono in molti, e ogni giorno se ne aggiunge qualcuno, da Duchamp a Boetti, da Calvino a Daniel Clowes, da Bjork e David Bowie e Nick Cave, ma tutto il percorso dei Radiohead, i loro continui passaggi tra rock, elettronica, free jazz, musica classica contemporanea fino al krautrock, ha raccontato una parte di me, e oserei dire di noi. Dei millennials, come fa figo chiamarci, o meglio di chi ha circa 30 anni, che è passato dall’assenza di sorprese, all’era degli allarmi continui, che ogni giorno da il meglio di se, ma ha capito che non è sufficiente, e che, pessimisticamente, non ha nessuna grande idea, perché sicuramente non accadrà nulla di buono. I “weirdo”, gli strambi, di Creep sono cresciuti, il nostro pessimismo ci ha reso tenaci, e ci ha permesso di prenderci quello che abbiamo sempre voluto e per cui abbiamo lavorato duramente, e per cui stiamo ancora lavorando.
Non siamo pessimisti, ci prepariamo al peggio per farci sorprendere dal bello, e quando cantiamo a squarciagola “Dreamers, they never learn” – frase di apertura di Daydreaming, tratta da A moon shaped pool, il loro ultimo disco, con cui si apre il live – raccontiamo tutto di noi. Siamo sognatori coi piedi per terra.
Roberta Pucci