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Imagoturgia. Forzatura lessicale, moderno (o forse post-moderno) “logos” non privo di fascino. Parola-chiave per entrare nell’esoterica dimensione d’ascolto e di pathos che accomuna due produzioni date a Parma, a fine maggio scorso.
Imagoturgia. Artificio tecnico, strumento di lavoro poetico, forse, nelle intenzioni dell’inventore di questo termine, il regista Francesco Pititto, con Maria Federica Maestri anima di Lenz Teatro, storica e ben connotata realtà teatrale parmense, spazio reale e metaforico di una scena che lavora sulle scaturigini generate dall’impatto fra le due eterne “faglie” del teatro, emozione e riflessione critica, offrendo i risultati di questo lavoro a privilegiate platee mignon. Anche tradizione e coerenza estetica che si rinnovano in Questa debole forza, di cui Pititto firma anche la scrittura drammaturgica, e insieme con Maestri l’impianto registico. Parole affidate a due soli interpreti, in una dialettica recitazione-canto che ne incrocia i rispettivi ruoli: mentre lei, Chiara Garzo, catafratta in un nero costume a mo’ di marchingegno semovibile, dipana con intenso sentire frammenti hölderliniani – Cori da Edipo il Tiranno, e Canto di Iperione e Canto del Destino -, lui, il basso Eugenio Maria Degiacomi, pochi bianchi panni da San Sebastiano, accenna a piena voce, ma distantissima, echi dal Papageno del mozartiano Flauto magico. L’elettronico “sound live” di Claudio Rocchetti avvolge il tutto nell’umbratile Sala delle Statue all’interno del Museo Archeologico Nazionale.
Lenz Fondazione, Questa Debole Forza – Maria Federica Maestri
Il legante programmatico fra la produzione di Lenz Teatro e quella del Teatro Regio, dislocata nel ligneo, sontuoso spazio del Farnese, si colloca all’altezza dei citati Canti hölderliniani, se possibile ad un ancor più complesso livello ermeneutico. Se infatti “imagoturgia” è parola che fissa il Kern drammaturgico ed emotivo dello spettacolo di Lenz Teatro, è proprio l’assenza della parola “detta” il nucleo concettuale del Prometeo – Tragedia dell’ascolto, musica di Luigi Nono su testi raccolti da Massimo Cacciari – macché “libretto”! lui stesso puntualizza – estratti da archetipici scritti della civiltà storico-letteraria e teatrale – Teogonia di Esiodo, Prometeo incatenato di Eschilo, quindi Sofocle ed Euripide, Erodoto e Pindaro – e agiti in dialettica con Goethe, Hölderlin, Schoenberg, Walter Benjamin. Parole, alcune delle quali affidate a due attori, che sarebbe stato bene – spiega Cacciari – limitare a una lettura non pronunciata dello stesso pubblico, quasi un ailleurs testuale sotteso al suono di solisti ed ensemble vocali e strumentali dislocati nella vastità spaziale del Farnese, rigenerati in phonos elettronico e movimentati in modo suggestivo da una sapiente regia del suono, il tutto a sua volta retto – su un pensile podio laterale – dall’abile ed esperto direttore Marco Angius, che ha ben definito il testamento compositivo noniano una “galassia sonora alla perenne deriva, il cui centro è costituito dal pubblico”.
Chi a Parma ha potuto seguire entrambe le produzioni (lo spettacolo di Lenz di poco precedente al serale del Prometeo di Nono anche nelle repliche), ed è stato capace di farsi pienamente sedurre da due manifestazioni linguistiche così differenti ma per molti versi complementari, ha vissuto certo un’esperienza non ordinaria.
Luigi Abbate