Categorie: Musica

What you Mean: Plethor X, suoni e visioni della nostra eredità coloniale

di - 22 Luglio 2024

Chi sono io? Ecco, la più primordiale delle domande che corrisponde al bisogno più essenziale di ricerca di un’identità e di autodeterminazione, proprio non solo dell’individuo ma di popoli interi. Una ricerca complessa, tesa e frenetica, che avviene scavando nel proprio passato e attraverso la costruzione della di una memoria storica. Costruzione che non si realizza mai in modo armonioso e lineare ma è il frutto di una contesa fra gruppi dominanti e dominati, tra rivendicazioni e reciproco riconoscimento. In questa continua lotta, l’arte come modalità esplorativa e la funzione dell’artista come produttore di cultura diventano determinanti. Ruolo che l’artista multidisciplinare italo-etiope Jermay Michael Gabriel ha assolto, in collaborazione con il produttore Giovanni Isgrò nel duo Plethor X, attraverso l’EP di What U Mean. Un progetto musicale che inizia dalla ricerca artistica di Jermay, incentrata sullo studio della storia coloniale europea, in particolare quella italiana, che ancora oggi bussa timidamente alla porta della memoria occidentale, chiedendo timidamente a un interlocutore, pressoché sordo, di entrare.

What U Mean contribuisce ad alzare il volume di questi colpi, inserendosi in un processo conflittuale di formazione della memoria collettiva che affronti il trauma del passato coloniale europeo. Una critica provocatoria attraverso la musica nei confronti dell’aggressivo colonialismo predatorio, proprio dell’uomo europeo “pazzo di se stesso”, come recita il testo di What you Mean che, con atteggiamento autoreferenziale, si pone sempre dalla parte giusta della storia.

«Il suono è sempre stata la modalità attraverso cui il popolo nero, che non è un monolite, ha cercato di esprimere se stesso», dice Jermay. «Nessun popolo è stato distribuito per il mondo come il popolo nero che, sdradicato dal proprio territorio, privato del proprio passato, ha cercato con la musica di trovare ed esprimere la sua identità.  Espressione che si è spesso trasformata attraverso il blues, il jazz in rivendicazione, richiesta di riconoscimento e denuncia della propria condizione di solitudine».

Tentativi di affermazione identitaria risuonano in Bet attraverso le parole pronunciate dall’artista Muna Mussie, che recita in modo ipnotico filastrocche e leggende etiopi. Il testo è frutto dei ricordi personali di Muna e Jermay, che condividono le stesse origini, delle favole raccontate loro durante l’infanzia, che rimandano a immagini sbiadite, eredità di generazioni e generazioni, che compaiono e scompaiono, come in un sogno.

Il suono diventa fonte di sollievo e di guarigione di fronte a un malessere continuo. Allo stesso tempo, diventa la voce di una battaglia per la memoria che chiede di essere ascoltata.

La struttura portante dell’intero disco è infatti rappresentata dalla tradizione musicale eritrea Habesha, che si innesta in modo sperimentale nelle più moderne forme di espressione musicale nera, come il footwork, il ghettohouse. Una fusione sperimentale e giocosa tra tracce sonore tradizionali pure etiopi e le sonorità oscure contemporanee, come quelle Gqom.

Tra gli altri contributi, anche quello di STILL, alias Simone Trabucchi, con l’energia dancehall di Fendika.

Il lavoro si rivolge a due pubblici, agli oppressi e agli oppressori, affinché si assuma la consapevolezza delle istanze che si chiede vengano accolte. Una duplicità che che Jermy vive dentro di sé, in quanto italiano di origine etiope: «Sono nato in Etiopia e quella è la mia storia, ma sono cresciuto in Italia, ho il passaporto italiano e godo di tutti i vantaggi che ne derivano. Come faccio a far convivere in armonia queste due parti di me? La risposta ancora non ce l’ho»

Il senso ultimo di questo disco è racchiuso nella sua copertina, creata prima della gestazione della produzione musicale: un fantino nero circondato da uomini bianchi. Il contesto è quello di Siena, il fantino è il primo vincitore nero del palio nel 1902, acclamato perché vincitore.

Oggi di questo fantino non rimane più traccia negli archivi storici, affacciato alla finestra dell’oblio, fra coloro che lo vogliono spingere nell’oscurità e coloro che vogliono salvarlo e restituirlo alla realtà: «Seppure le tracce di questo fantino sembrino completamente bruciate ne sono rimaste le ceneri, che possono essere recuperate e riutilizzate. Il suo ricordo esiste ancora, infatti la distruzione della memoria in realtà non si realizza mai», dice Jermay.

Con questo disco il duo Plethor X si innalzano a testimoni e difensori di una memoria che ancora combatte per essere riconosciuta, mettendo in discussione e sfregiando il masso granitico della verità occidentale europea.

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