Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Una donna in una cabina telefonica rossa, il rumore di un treno al crepuscolo confonde le sue parole. Vapore bianco. Un insegna al neon, Paris Bistrot. Lo STOP ottagonale. L’asfalto umido riflette le sfumature luminose dei lampioni, mentre la progressione di architetture si disperde nella notte. È tardo pomeriggio e, nella cucina, le tendine sono abbassate, nascondendo la strada antistante. Due settimane a Roma. Una vasca da bagno tra Berlino Est e Ovest. L’ombra di una persona si allunga sulle pagine sgualcite del New York Post, è il 9 settembre 1976 e Mao è morto.
Questi frammenti narrativi emergono dalle opere di Bill Beckley (Pennsylvania, 1946) in esposizione allo Studio Trisorio, per la personale che segna una collaborazione trentennale con la galleria napoletana, dalla prima e ormai storica “Gardens of Pompei” del 1986.
In questa occasione, sono esposte opere realizzate nei Seventies, nel periodo in cui il pioniere della Narrative Art si trovava a New York, dove si trasferì nell’estate del 1970, subito dopo aver concluso gli studi in arte alla Temple University di Philadelphia. Erano anche gli anni della cucina di Richard Nixon, delle cadute di Ford e delle arachidi di Carter, della guerra del Kippur, della Rivoluzione Iraniana e di due crisi energetiche mondiali. Le truppe americane si ritiravano dal Vietnam e la sonda spaziale Voyager 1 veniva lanciata verso i confini del sistema solare, dov’è tuttora, diventando l’oggetto costruito dall’uomo più lontano dalla Terra. Nella città che si affaccia sull’Atlantico, la città delle feste esagerate dello Studio ’54, dei vagoni della metropolitana ricoperti di graffiti e del teatro sperimentale La Mama, Beckley conobbe Bill Bollinger, Gordon Matta Clark, Rafi Ferrer, Barry Le Va, Jeffery Lew e Alan Saret, con i quali organizzò le prime attività del 112 Greene Street, storico spazio espositivo a Soho, archetipo della galleria alternativa. In quei tempi si respirava l’aria del minimalismo e del concettuale e, per la sua prima mostra al civico 112, Beckley predispose un tavolaccio sospeso sotto una gabbia con un gallo vivo.
Ma la materia della sua ricerca artistica doveva affiorare in altri luoghi, nella accattivante leggerezza di una narrazione distesa sulla superficie del quotidiano. La storia emerge dalle strade e si nasconde negli appartamenti, nei caratteri tipografici dei giornali, nelle relazioni tra gli ammiccamenti patinati dei manifesti pubblicitari e la prossemica organica degli uomini e delle donne, nei colori saturi che trasformano le cose nella loro astrazione, negli oggetti che si sedimentano nell’utilizzo ripetitivo. Beckley, però, non descrive la realtà con termini antropologici, non cede all’impeto di una denuncia dell’alienazione, della solitudine o dell’opulenza, la sua pratica segue un percorso di comunicazione fluida che traduce una storia in un segno da interpretare. Il racconto visivo è ambientato in un’atmosfera di sospensione che riesce a essere vibrante e concreta, una zona ambigua cui il punto di vista costruisce l’architettura narrativa procedendo per gradi, nascondendo e rivelando ampie zone della trama. In questa modalità dell’immagine, l’osservazione delle cose e la lettura delle parole si ibridano per formare i due poli combacianti del processo di interpretazione ma i codici sono nascosti e rimarranno tali.
Il racconto non è un’entità astratta ma un velo sensuale che avvolge il tempo, le persone e le cose, in una relazione di significato, tra epiloghi distanti e interruzioni inaspettate. Osservare, parlare, pensare, immaginare, raccontare e, poi, ribaltare il punto di vista per iniziare di nuovo, come in una sequenza di scene montate che si affastellano l’una sull’altra, cambiando ordine alla realtà.
Le grandi stampe fotografiche sono ingrandimenti di un breve momento dell’esistenza, un brandello scomposto nella sua forma e, contestualmente, descritto nel linguaggio. La composizione è strutturata intorno alle misure rigorose dell’inquadratura e delle parole, il cui taglio è sempre netto, incisivo e simbolico, com’è tipico di certa letteratura modernista, in particolare americana, dal John Dos Passos di Manhattan Transfer al William Faulkner di The Sound and the Fury. Il tono è accattivante, nelle immagini e nei testi si aprono luminosi vuoti narrativi che si offrono per essere completati dalla fantasia di chi osserva. Così, la luce e la forma dell’insegna di Paris Bistro (1975) rimandano a una persona che sta entrando nel locale, a ciò che sta succedendo nel club e nella strada antistante, Mao Dead (1976) spicca dalle colonne del New York Post, lasciando immaginare un lettore che sfoglia il giornale e le ombre del mondo che si agitano sulla carta. In Deirdre’s Lip (1978), dalle rosse labbra di Deirdre si avvia un flusso narrativo che, ambientato nei colori del crepuscolo e in una rossa cabina telefonica, conduce all’abbandono dell’amante.
Mario Francesco Simeone
mostra visitata il 21 gennaio 2016
Dal 21 gennaio al 21 marzo 2016
Bill Beckley, Elements of romance. Works from the Seventies
Studio Trisorio
Riviera di Chiaia, 215 – 80121, Napoli
Orari: dal lunedì al venerdì, dalle 10 alle 13.30 – dalle 16 alle 19.30. Sabato, dalle 10 alle 13.30