Altro
che crisi del settimo anno. Correva il 2002 quando per
Francesco Clemente (Napoli, 1952; vive a New York) si
aprirono i battenti del Museo Archeologico Nazionale, pietra angolare di quegli
Annali delle Arti che di lì a un triennio avrebbero portato alla nascita del Madre.
Dove,
permeato di
genius loci, il medesimo si sarebbe esibito a tutto tondo, facendo “piovere” tra
due piani risucchiati l’uno verso l’altro un variopinto caleidoscopio di
folklore, magia e stereotipi in forma d’affresco; e poi ideando le piastrelle,
e perfino il vasellame del ristorante.
La
mostra corona dunque una questione di feeling, amicizia e gratitudine
reciproche. Un passaggio spirituale, che cede esplicitamente alla retorica
delle radici solo nelle
Mappe, uniche opere nuove di zecca in un corpus di un centinaio
di pezzi dal 1974 al 2004, ingenuo e incisivo
pastiche di mondi lontani, dominati però
dall’assoluta centralità partenopea. Una geografia fantastica che si fa
specchio d’una biografia nomade, dapprima spensieratamente raminga e poi
consapevolmente incardinata su coordinate precise: l’India, New York, e ancora
Napoli.
E
quanta energia sentimentale sia stata investita lo sottolinea la pregevole
operazione editoriale
a latere, frutto dell’amicizia di Clemente con Salman Rushdie, lo
scrittore indiano noto per esser stato colpito dalla
fatwa islamica, autore per l’occasione
di
Nel sud,
racconto di senilità ambientato nel meridione del Subcontinente (ma agevolmente
“trapiantabile” altrove). Ispirazione ricambiata dall’artista con una bella
serie d’illustrazioni “goticheggianti”, capolettera compresi.
Nelle
sale al terzo piano, gli
habitué del Madre s’imbattono in una personale meno monocorde e
ripetitiva delle precedenti, che stavolta ha i numeri per incontrare anche il
gusto del proverbiale “grande pubblico”, per le possibilità intrinseche a una
pittura seducente per colori e immagini e fertile di soluzioni e leitmotiv solo
in seconda battuta (e non sempre) ermetici, primo fra tutti il sesso. Un
magazzino surreale, trapunto d’araldica popolare e tramato di eredità,
omogeneizzato in una cifra personale.
Una
monografica non celebrativa, s’è spesso detto durante la presentazione (anche
per evitare che il panegirico dell’ospite si trasformasse nel peana del padrone
di casa). Ma che in ogni caso convalida per i più fegatosi “misopartenopeisti”
(abbondanti,
ça va sans dire, fra gli autoctoni) il teorema secondo il quale solo chi
va via dal Golfo fa fortuna, e vi torna da figliuol prodigo. Specie nel caso in
cui di Americhe ne abbia (ri)trovate ben due: una oltreoceano, l’altra su un
suolo natio che forse, senza quel timbro sul passaporto, sarebbe stato meno
generoso.
“
Punto
di arrivo e punto di partenza”, ha definito l’antologica il direttore del Madre,
Eduardo Cicelyn. E, tra quei corsi e ricorsi storici di cui i napoletani – Vico
docet –
sembrano avere il
copyright, chissà che tra un settennato non ci scappi un Clemente
ter…