Shrug. Ovvero “scrollare le spalle”. Questo il titolo della personale dell’artista austriaco Hugo Markl, per la prima volta in Italia. Un titolo spiazzante come la sequenza di foto che sorprendono il visitatore nella prima sala espositiva della galleria partenopea di Umberto Raucci e Carlo Santamaria. Incorniciati, rigorosamente in 24 quadrati uguali, gli scatti documentano ciò che resta di un palazzo viennese subito dopo la sua demolizione. Tra calcinacci di cemento e tubi piegati si ri-velano nuove forme e nuove cromie: frammenti del visibile destinati ad essere rimossi per sempre dagli sguardi.
Nella seconda sala, lo spazio, volutamente ridimensionato da un muro di cartongesso bianco, rimanda concettualmente al rapporto visibile-invisibile già affrontato nelle foto dei resti dell’edificio viennese. Stessa impaginazione, stesso ritmo, quasi sequenziale per le 36 immagini disposte nei riquadri, anche qui rigorosamente uguali. Visioni apparentemente caotiche e sconnesse sono il risultato di un processo artificioso dove l’artista è il deus ex machina. La visione d’insieme, in un primo impatto, è spaesante, tale da invogliare quello scrollare di spalle, suggerito dal titolo della mostra.
Un cuore trafitto da due matite, disegni infantili e inserti di poesia visiva. Tacchi a spillo e corpi di donne, in pose non sempre seducenti, icone di femminilità ripetute ossessivamente che trovano nella visione di un parto tutta la crudezza della nascita-creazione o tra le pagine patinate quella del sesso-mercificazione. E ancora ritratti, volti sui quali si inserisce la grafia per una nuova foto-grafia dell’immagine; e alberi dai cui rami pendono inquietanti corde-capestro. L’artista fa a pezzi il realismo figurativo proprio come l’esplosione ha ridotto in un cumulo di detriti la visione reale di ciò che prima era un palazzo.
La comunicazione avviene su due livelli, uno superficiale, l’altro più complesso, più difficile da decifrare. Corpi e oggetti, segni e parole che l’artista ha realizzato e tradotto in fotografie, sono inseriti in un nuovo quadro compositivo dove, una lettura più attenta, riesce a carpire come questi stessi elementi pur banali influenzino poi la società dei consumi, rappresentino l’eterna dicotomia tra essere e apparire, tra forma e contenuto. Concetti codificati anche nelle due sculture che in entrambe le sale affiorano dal pavimento come oggetti estranei: sono le Vertikales Edarmloch, opere in bronzo fuso il cui titolo letteralmente significa “foro verticale del braccio della terra”. I bronzi, in effetti, sono stati ottenuti dal calco del braccio che l’artista ha affondato nella nuda terra. Apparentemente rozze e insignificanti nascondono nel loro interno la forma dello stesso braccio che le ha realizzate. In una sola opera il tentativo di sintesi estrema, al limite del paradossale, tra uomo e natura.
Alla varietà dei frammenti del palazzo viennese in macerie, come in un sottile gioco di corrispondenze, si alternano i riquadri raffiguranti collage, lavori pittorici e poesia visiva: la contaminazione dei linguaggi espressivi trova in queste opere la sua ragion d’essere: l’astrazione del reale, del visibile. In un tempo, quello attuale, in cui il bombardamento delle immagini ha raggiunto livelli incommensurabili, l’artista austriaco ripropone una sorta di bombardamento visuale dove è possibile cogliere l’ambiguità delle forme, la mistificazione della realtà. L’invito è andare oltre le apparenze. Dopo tutto non era forse il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry a sostenere che “l’essenziale è invisibile agli occhi?”
antonietta fulvio
mostra visitata il 2 maggio 2006
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