Non di sola Cina si vive. Intendiamoci, nulla contro l’attenzione per il recente boom dell’arte cinese e asiatica in generale. Ma, come spesso accade quando un nuovo fenomeno s’impone all’interesse comune, si rischia di dimenticare che nel panorama dell’arte extra-europea esistono anche altri territori degni di incursioni. A ricordarcelo, guidandoci in un
safari visivo nell’arte di Kivuthi Mbuno e Richard Onyango, è lo stesso Franco Riccardo che, nel 2006, tratteggiò le tendenze dell’arte africana contemporanea con la collettiva
Africa Nera – Hic Sunt Leones: Protagonisti dell’Arte Africana.
Ritagliate da una linea così netta e cingente da ricordare il sintetismo di
Bernard, le figurine di
Kivuthi Mbuno (Kenya, 1947) inscenano sulle quinte sabbiose dei deserti o vivide dei fiumi e delle radure -con intenso contrappunto coloristico, valorizzato dall’allestimento che alterna toni freddi e caldi- storie eterne e ancestrali di vita quotidiana. Il riferimento al sintetismo non è inopportuno, dato che esso nasceva proprio dalla fascinazione per stili esotici e primitivi. Ma l’intensità del contorno
cloisonné, l’energia compositiva bidimensionale e aprospettica, la forza delle tinte pure e quasi piatte di Mbuno, che tanto piacerebbero a Bernard, sono appetibili ancor più ai nostri occhi contemporanei, e non così lontane dai graffiti di
Keith Haring: ulteriore prova dell’inconfutabile valenza visiva, allora come oggi, della capacità sintetica e astrattizzante africana.
A stento distinguibili tra loro, animali “antropomorfici” e uomini “animaleschi”, tutti caratterizzati con potente sintesi a metà tra la grottesca espressività dei comics e l’elegante
naïveté dei disegni rupestri, narrano di un mondo in cui non esistono barriere né gerarchie di valore tra gli esseri. Utopia? Forse sì, per noi europei, capaci di concettualizzare tutto ciò solo sotto forma di mitologici “esotismi” da Eden perduto, ma non per la visione panica africana.
Salta a pie’ pari il rischio di leziose e cerebrali idealizzazioni anche
Richard Onyango (Kisii, 1960: vive a Malindi). La sua costruzione di una “mitologia del progresso”, identificata nel diffondersi del trasporto su autobus, è interamente viscerale e per nulla da cartolina. Devotamente rappresentati con dovizia di particolari, come in un bestiario delle meraviglie, i
coaches sembrano davvero prender vita, maestosi animali ruggenti con glorioso rombo di motore, tanto che a volte si guidano da soli, senza conducente. Proprio come gli squali e ghepardi che, senza tema di kitsch, li adornano.
Dai primi, approssimativi modelli agli scintillanti e fantascientifici prototipi, la carrellata di prodigi
on the road è anche pretesto per indagare lo sviluppo del paesaggio, mutato da segni del progresso come le linee elettriche: inarrestabile corsa nel futuro di un continente che ha ancora tanta voglia, e diritto, di farsi vedere.
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