Smetto quando voglio. Se l’era ripromesso Hervé Ingrand (nato nel 1972 a Parigi, dove vive), ma a quanto pare non ci è riuscito. Per la precisione, il pittore francese aveva fissato al settimo trasloco la data di scadenza per Cetéternelatelier, ciclo sul quale il suo itinerario è in loop dal 1994. Ma le ossessioni sono difficili da impacchettare e relegare in soffitta. Sicché, messo “politicamente” in stand-by l’annunciato rinnovamento, anche questa personale, ad appena un anno di distanza dalla precedente, spalanca le porte dello spazio B direttamente sullo studio dell’artista, gabbia-nido stipato fino all’inverosimile di cose, fardelli indispensabili nella vita come nel lavoro, ancore affettive cui aggrapparsi con tenacia. Il movimento ricercato è dentro-fuori, esemplificativo di una poetica puntellata su istanze di comunicazione e coinvolgimento. Nessuna gelosia di mestiere, nessun segreto. Tutto è qui, in bell’evidenza, e tutti sono invitati a partecipare, anche fisicamente, al fantastico gioco del genio al lavoro. Entrate, cari spettatori, e giacché ci siete date una mano, come fanno le due amiche che, nel video in onda dentro il diorama rivestito di sugheri partenopei (San Gregorio Armeno, per la precisione), spingono un cumulo di cianfrusaglie da una stanza all’altra. Lavoro inutile come quello dell’artista, dissacrato facendo della sala parto dell’opera l’opera stessa: soluzione provocatoriamente escogitata per soddisfare la curiosità morbosa del pubblico. O forse per frustrarla? E se dietro l’angolo della disponibilità fosse in agguato la contraddizione? Perché, più che palesare il “divino segreto”, pare che Ingrand si diverta quasi a condannare il momento creativo alla ripetitiva cristallizzazione nella fase dei preliminari, documento di un impulso perennemente rinviato a data da destinarsi sotto le mentite spoglie del suo compiersi. Concezione saldamente incardinata sull’ego, in cui pure un accidente come la caduta dello specchio viene promosso ad evento da celebrare, organico ad una confusione zavorrata di sovrastrutture simboliche.
Altrettanto costruita ma più discontinua la prova di Georg Herold (Jena, 1947, vive a Colonia) nello spazio A. Variegato e compattato bazar dal retrogusto antologico, all’insegna d’un eclettismo di lungo corso, dall’ultrapoverismo di Hair common flag, dove bastano pochi listelli di legno a far sventolare nell’immaginazione la bandiera americana, all’extralusso del quadro “impastato” nientemeno che col caviale. Ermetiche le serie di scatti, giochi sacri e profani sull’ambigua parafrasi tra annuncio televisivo e Annunciazione. Temi religiosi che calzano a pennello alla Virgin che, nella stravolta torsione del suo contrapposto, pare una Madonna del Pontormo incartata come un cioccolatino. Esplicita e tenebrosa l’allusione sessuale di Corpus delirium, inquietante, crepuscolare e grottesco mausoleo dell’appassito femmino degno d’un Fassbinder, con quei collant da beghina a ragliare i palpiti d’una casalinga disperata, zitella di ritorno suo malgrado.
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anita pepe
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