“
Astrazione terrena” è il titolo scelto da Joseph Masheck più di 25 anni fa per definire la produzione pittorica di
David Budd in occasione di una retrospettiva alla Max Hutchinson Gallery. Una definizione che si adatta bene anche ai dipinti di
Jason Martin (Jersey City, British Islands, 1970), paragonati nel 1998 dal “New York Times” proprio ai lavori più astrattizzanti del pittore americano. Un anno prima, un giovanissimo Martin aveva partecipato a
Sensation, ormai celeberrima collettiva degli scalpitanti Young British Artists alla Royal Academy of Art. Rispetto alle brillanti provocazioni plastiche della premiata scuderia Saatchi, le opere dell’artista anglosassone sbalzano sulle pareti dello spazio espositivo in tutta la loro carica figurativa.
“Astrazioni terrene”, tavole geografiche che contribuiscono a delineare i segni fisici di un atlante solido e prominente, come le vedute aeree di tonalità zinco esposte presso la Lisson Gallery nel 2004; tra le opere esposte a Londra anche
Atlas, una parola scelta come titolo per l’ultima personale italiana di Martin da Mimmo Scognamiglio. Tavole fisiche di una cartina troppo irregolare e variegata per essere la descrizione politica di un territorio. Irregolari come la sagoma di alcuni supporti in acciaio: quadrilateri che aspirano vanamente all’armonia delle forme quadrate.
I supporti accolgono materiali eterogenei come la sabbia, che aumenta la porosità dei composti pastosi scelti per alcune opere. Ne consegue che gli avvallamenti materici di
Ruin (2007) rimandano alla morfologia di un territorio grigio e lunare. In questo caso, la grana spessa dell’impasto allarga le maglie del blasone curvilineo che solca la maggioranza dei lavori in mostra. L’impiego di gel acrilici su acciaio specchiante, talvolta in quantità tali da non ricoprire tutta la superficie, mette a nudo i supporti, come nel caso di
Waimea, dove i riflessi della striature esibiscono l’effetto liquido di un cerchio sull’acqua. E, ancora, la lucentezza del nero acrilico che definisce la superficie di alcune opere big size quali
Cairo (2006) con la sua seducente morfologia da disco vinilico.
Lo stemma di Jason Martin movimenta la materia, mostrando i segni del supporto “agito” con una sorta di grande pettine, strumento da sempre presente nella sua personale cassetta degli attrezzi. Blasoni monocromatici come monogrammi astratti che (contras) segnano al centro dei supporti la paternità di un linguaggio originale.
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decorativo...da salotto borghese...diciamo che Amelio non lo avrebbe voluto neanche regalato