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Fino al 15. III. 2019 | Karen Stuke, Hotel Bogotà, The Last Check-Out | Galleria Primopiano, Napoli

di - 16 Marzo 2019
Non c’è spazio. Non c’è museo, né galleria. Non c’è più un luogo che contraccambi la nostra inclinazione all’edificio di senso, quel palazzo eretto a un preciso scopo che un tempo indicava, sin dalle fondamenta, le sue finalità. Non a caso, la ricerca di un posto che accolga pienamente le esigenze di una mentalità novecentesca, educata su modelli di stabilità e cresciuta tutta a Foro Italico e Palazzo dei Congressi, ovviamente, non ha portato a nulla. Non c’è spazio. Si guardi bene che un posto permanente, semplicemente, non esiste.
Si tratta di un’evidenza ben chiara a Karen Stuke, fotografa berlinese dal tocco poetico, in mostra con una nuova personale presso la Galleria PrimoPiano di Napoli. Non è la sua prima mostra qui e si spera non sia l’ultima: una speranza stridente con l’andatura dell’esposizione che, invece, accetta la fine. Anzi, la subisce proprio.
Il titolo del progetto, “Hotel Bogotà, The last check-out”, mette immediatamente in circolo questo senso di abbandono. Le architetture si opacizzano, le pareti si alzano come un sipario. È un’epoca nostalgica la nostra, un tempo in cui facciamo i conti con le assenze, con gli addii, con le mancanze. O meglio, con le sparizioni. Le cose cessano di esserci, semplicemente scompaiono.
L’Hotel Bogotà di Berlino non c’è più. Tra il novembre 2012 e il dicembre 2013, d’accordo con l’albergatore Joachim Rissmann, Karen Stuke aveva avuto accesso alle camere, alloggiando in 45 diverse stanze del famoso hotel. Durante i suoi passaggi, l’artista ha colto sé stessa dormiente, avvolta nelle lenzuola, sfocata dentro un’aura, una specie di alba mista al crepuscolo. «Ogni notte uno scatto con il tempo di esposizione che corrispondeva alla durata del pernottamento, il tempo dell’incoscienza, del sonno e del sogno», spiega il curatore, Antonio Maiorino Marrazzo.
Karen Stuke, Hotel Bogotà, The Last Check-Out
C’è una contraddizione fortissima in questi lavori. Se la tecnica a foro stenopeico richiede infatti un tempo di esposizione molto lungo perché dell’immagine possa apparire qualcosa di distinto, la sensazione che le opere lasciano va in tutt’altra direzione: c’è poco tempo, sembra, c’è premura. C’è urgenza di andare, di correre via, prima che l’edificio sparisca. Prima che l’Hotel venga chiuso per sempre. Inghiottito dalla mediocrità, dirà qualcuno, oppure dal progresso, dal capitalismo, dall’anonimato: sono cose che si dicono e potrebbero tutte quante essere vere. Ma se i luoghi sparissero perché è davvero finito il loro tempo? Se, insomma, la direzione del nostro benessere fosse il vuoto?
Quell’ultima notte del Bogotà, Karen Stuke era lì. E per quanto la retorica su un mondo precario sia divenuta una nenia futile, quando si parla d’arte pare quanto mai necessario dichiarare, senza timore, che i luoghi non esistono più. Bisognerà ripeterlo, che il patrimonio artistico – quello possibile, di qua a venire – non prevede luoghi, né aperti né chiusi.
Alla luce di questa evidenza si spiegano le tendenze a riconvertire vecchi palazzi, ex fabbriche, luoghi dismessi che vengono riportati in vita, riaperti. E se apparentemente a muovere queste iniziative sembra esserci una volontà di recupero niente affatto criticabile, anzi positiva e giusta, sarebbe ingenuo non vederci dell’altro: è chiaro che il recupero di luoghi abbandonati, il ripristino di aree che diventano esse stesse luogo e materia espositiva, sia l’ultimo tentativo di una visione dell’arte che vuol per forza locare.
L’idea di disporre, sistemare, preoccupandosi della luce e dell’allestimento, è reale certo ma anche non più ammissibile. Non esistono le grandi monumentalità, non essendovi più le ideologie che le generano. E così non hanno più senso gli stadi, le ampollose università, le funeste strutture ospedaliere. Gli alberghi. Eppure si gioca ancora a calcio, si studia, si muore. Si viaggia. Insomma, l’arte sta proprio dentro questo abbandono del senso, in cui però la vita continua. C’è mancanza ovunque, ma gli artisti stanno già cavalcando le loro assenze, per fa sì che gli altri ne godano.
L’opera si produce da sé, attraverso sensazioni che, sedimentando, si arroccano in cima, come sopra un’altura, come in un sinecismo, diventando forma vivente. L’arte, per questo, è molto personale.
Elvira Buonocore
Mostra visitata il 27 gennaio 2019
Dal 10 gennaio al 15 marzo 2019
Karen Stuke, Hotel Bogotà, The Last Check-Out
Galleria PrimoPiano, Via Foria 118 – 80137, Napoli
Orari: mercoledì e giovedì dalle 15.30 alle 19.30; gli altri giorni su appuntamento
Info: primopianonapoli@gmail.com

Nata a Pagani nel 1989, si forma come autrice parallelamente a una intensa esperienza di recitazione. Forte di una formazione classica, si muove poi al di fuori di un preciso percorso accademico, frequentando laboratori e stage di recitazione e scrittura teatrale. È parte della compagnia Teatro Grimaldello, per cui realizza testi e adattamenti. Collabora a progetti curatoriali.

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