24 gennaio 1995, ore 11:
Brian Eno (Woodbridge, 1948) concede a se stesso una visita al Big Ben. E, in compagnia dell’amico e corrispondente Stewart Brand all’interno della sala campanaria, l’artista britannico si domanda se i pinnacoli dell’orologio siano visibili a livello del terreno. Conferma biografica che Eno era stato sedotto dalla stabilità della struttura-campana, dal suo codice sonoro che demarca il trascorrere del tempo, come si può leggere in
A year with Swollen Appendices, diario di bordo multidisciplinare dello stesso anno.
Dieci anni dopo, Eno stampa il disco strumentale
January 07003: Bell Studies for The Clock of The Long Now su committenza della Long Now Foundation, responsabile della costruzione del prototipo di un orologio progettato per segnare il tempo nei prossimi diecimila anni. Anche per Eno la tecnologia e le arti applicate sono destinate a resistere all’uomo, condannato invece all’osservazione frammentaria di un fenomeno che scavalca ciclicamente le sue aspettative di vita.
Le otto tracce audio dell’installazione
Aurelia (Lidyan Bells) saturano lo spazio cavo e vuoto del cortile del Madre. Campionamenti sonori in-discreti, riprodotti in stringhe casuali che sfuggono alla ripetitività in fase di ascolto. L’oggetto-campana, nel suo bronzo egotistico in stile
new-age, non è visibile nel cortile; l’unica campana osservabile dal visitatore è quella muta e civile dell’architettura del complesso di via Settembrini. Otto eventi sonori nella messa in scena di una “
condizione architettonica”, per utilizzare una definizione dello stesso Eno, per l’installazione
Compact Forest Proposal Art, presentata a San Francisco nel 2001.
La seconda opera è rappresentata da un nuovo allestimento di
77 million paintings, riproposto a Napoli dopo una prima apparizione lo scorso anno nella Grotta di Seiano, antico traforo di 700 metri, costruito in epoca romana durante il regno di Tiberio. Una proposta visivo-sonora composta da dodici schermi suddivisi in quattro semi, che proiettano in sequenza casuale un blocco di
texture digitalizzate dallo stesso Eno. Un insieme di rettangoli che assume la configurazione complessiva di una svastica indiana, suscettibile di milioni di soluzioni figurative. Tracce visive autonome che ritagliano le forme nei bordi di una croce uncinata.
L’arte della ricombinazione si concilia con la ricerca di una messa in scena più libera rispetto al primo allestimento, piuttosto evocativo, ma condizionato da evidenti limiti di spazio: il dispositivo visivo-sonoro era stato collocato come un tappo, in fondo alla galleria, davanti all’apertura a strapiombo sulla baia della Gaiola. Lo spazio istituzionale del Madre si presta invece a una fruizione più comoda del lavoro, grazie ai divani collocati intorno a una scenografia originale, composta da quattro coni in vermiculite, un minerale impiegato in edilizia come isolante termico.
Oggetti di scena, colorati da alcuni fasci di luce, in sintonia cromatica con i colori dominanti delle tessiture digitali. Corrispondenze tonali e scenografiche di una condizione architettonica inafferrabile nella fuga lenta e casuale dei frammenti visivi sullo schermo.
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un lounge bar arredato coi mobili dell'ikea. e con quelle pertiche modello lap dance. quo usque tandem obtuere patientiae nostrae?
orrible!!!!!!
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come si legge inizialmente nella recensione..."condannati", ossia tutti coloro che assistono a questo pretestuoso scrosciare leeeeeento di pixel in movimento e campionature audio.
Dopo tutto quello che ha creato questo "mostro", poteva decisamente sforzarsi un po' di più.
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