Materia scottante ma raffreddata quella che prende forma sotto i pennelli di
Gian Marco Montesano (Torino, 1949; vive a Bologna e Parigi). E mai come ora il lento dipingere a olio, da sempre difeso dall’artista, assume il senso di una prolungata, cerebrale e asettica meditazione, che astrattizza in temi universali un dibattito politico. Il “litigio storico” (
Historikerstreit) su nazismo e stalinismo è infatti per Montesano un occasionale pretesto che fornisce materiale iconografico -i manifesti di propaganda bellica- e definizione spazio-temporale -la Germania e la Russia degli anni ‘30 e ‘40- a una ricerca filosofica, dagli esiti quasi semiotici, su come il Male si tramuti in immagine e su cosa sia il Male stesso.
La traduzione operativa di questo fine concettuale in “
ragionamento visivo” sceglie, coerentemente con il carattere speculativo dell’indagine, il formato del dittico, come rigorosa forma di raffronto logico tra simboli del socialismo reale e del nazismo. Il percorso espositivo è quindi interamente occupato da coppie di pannelli, quasi identiche nelle misure, che affiancano le fedeli riproduzioni di un manifesto tedesco e di uno sovietico.
Bandiere, stemmi, cingolati, “la città che sale”, militi vigorosi: l’intero repertorio della prosopopea bellica è sciorinato nella sua monotona omogeneità e prevedibile “oleografia”, rendendo inquietantemente simili nella percezione le immagini di guerra alle precedenti vedute da cartolina partenopee di Montesano, e manifestando come, da qualunque parte provenga la propaganda, identiche ne siano le armi: il
focus subdolo e populista sulle pulsioni più primitive, la violenza dei colori, l’incisività di composizioni grafiche semplificate e d’impatto.
Tutti strumenti ancora oggi adottati dall’“
ideologia dominante” dell’advertising: non per nulla i manifesti bellici sono spesso indicati come antecedenti della grafica pubblicitaria.
Così indistinte sono le immagini tedesche e sovietiche da rendere inavvertita in alcune opere l’inversione tra destra e sinistra delle visioni staliniste e naziste, negli altri dittici posizionate invece secondo il loro schieramento politico. Solo un’
allure vagamente più cinematografica differenzia le immagini germaniche dalle più sintetiche e raggiste visioni russe, ma analoghe sono la dominante coloristica rosso-oro, che forza Montesano ad abbandonare i suoi amati monocromi grigi, e la composizione, che ritaglia violentemente le figure da sfondi spesso piatti.
Identica e angosciosa è anche l’assenza di sguardo dei personaggi, che invasati del sacro furore marziale guardano quasi sempre in lontananza, eludendo l’osservatore, o che al più lo fissano con occhi glaciali e inespressivi: inquietante segno dell’avvenuta spersonalizzazione prodotta dall’ideologia, anch’essa del resto svuotata di significato dall’eccessiva reiterazione, quasi pubblicitaria e Pop, del messaggio. Forse il Male per Montesano è proprio questo, la perdita del senso.
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mi piacerebbe vedere una doppia personale montesano abbate.