L’universo per
Arash Radpour (Teheran, 1976; vive a Roma) è vuoto di istanti e distanze. Scevri da connotazioni identificative e cognitive, i suoi luoghi sono archetipi di ambientazioni per
personaggi della nuova umanità che vivono la
realtà aumentata, la dimensione virtuale in cui immaginario e reale s’incrociano. Quinte per una rappresentazione senza narrazione, che induce lo straniante disorientamento di chi assiste a uno spettacolo senza trama, a un teatro interiore che cerca e scava nell’identità concreta delle persone ritratte, tutti artisti o creativi, stemperandola in paradigmi simbolici di nuovi ruoli.
Michelangelo Dalisi,
Elena Bouryka,
Fabrizia Sacchi: i titoli richiamano individualità esistenti, ma questo è l’ultimo residuo di verità per apparizioni che si sospendono in un non-tempo metafisico e onirico, che potrebbe riferirsi a qualunque momento storico.
E protagonisti delle fotografie, al pari e più dei personaggi, sono gli scenari. Le mura diroccate e pregne di memoria di
Lorena Dellaccio, la prigione di cemento che incarcera lo sguardo avido di cielo evocato dalla giacca magrittiana di
Giancarlo Savino, i surreali impianti sportivi defunzionalizzati di
The Pool, il nostalgico Eden strappato alla metropoli e reso primitivo dalle nudità di
Giorgia Sinicorni.
Ogni contesto si anima in un’intensa presenza espressiva che sembra
abitare essa stessa, con surreale inversione di termini fra abitante ed abitato, gli spazi interiori dei soggetti ripresi, ispirandone e conformandone gesti ed azioni.
Del resto, già per McLuhan le forme urbane e architettoniche erano estensioni degli organi fisici, una “pelle” collettiva, prolungamento vivificato delle funzioni proiettate in esse. La rarefatta atmosfera misterica e sospesa, l’a-narratività dell’immagine e, soprattutto, la moltiplicazione o duplicazione della stessa figura umana, come in
Alessandro Giuliano o
Camilla Alibrandi, avvicinano le visioni di Radpour a quelle dei Preraffaelliti, in opere quali
La scala d’oro di
Edward Burne-Jones o
Astante siriaca di
Dante Gabriel Rossetti.
Solo che l’espediente adesso non è pittorico ma digitale, e insegue il mistero del reale con strumenti tecnologici. Un po’ come per i paradossali pleniluni postmoderni di
Darren Almond.
Il disorientamento logico non si attenua neanche se la moltiplicazione della figura da sincronica si fa diacronica, negli
split screen di
Brian Eno & the eight friends o negli interni claustrofobici in acciaio respingente di
Untitled.
Anche se più
glamorous che nella mostra
The sweet hereafter – sostituendo negli sfondi al non-luogo dell’oscurità indistinta del 2005 quello di atemporali e simboliche scene cosmopolite – Radpour continua a restituire il fascino allucinatorio di inquiete fiabe contemporanee. Scritte per personaggi-avatar di nuove dimensioni.
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orroreeee