Per Alfredo Pirri (Cosenza, 1957; vive a Roma) le nuvole, se volano basse, possono perdere quota, e finire intrappolate nei muri delle case, come schegge di meteoriti. Ma invece della levitante morbidezza del vapore acqueo, quei nugoli incidentati che se ne stanno confitti sulle pareti sono fatti di materiali vili, plexiglas, lacca acrilica e cartone; semi-impermeabili e inamovibili come non sono le nuvole, ma retro-illuminati come se in lontananza albeggiasse davvero.
Anche il tappeto di fogli che se ne sta appeso al muro come un arazzo piumato sembrerebbe a primo acchito un sontuoso letto di fiori: ma il collage delle carte di cui è fatto ha in comune coi fiori solo l’ordine non casuale della disposizione, che crea spessori e diradamenti come la Natura quando distribuisce i petali nelle corolle. E in effetti ogni frammento ha la nuance vellutata del prato spazzato dal vento, acquerellato com’è, uno per uno.
In una teca è sigillata una scatola da cui traboccano incontinenti palline (da golf?), alcune sovradimensionate come palloni gonfiabili e tutte incalzate da una pressione invisibile che le fa sprigionare come schiuma da barba, anche se siamo noi a vederci un movimento interno, una fuga fuori dalla scatola dove in realtà tutto è fermo.
Ma questo è uno dei segreti di Pirri: innescare alla sola vista l’animazione delle sue installazioni. Gli acquerelli (che esulano dall’ambientazione tra pop e poverista da paradiso perduto/ritrovato) evocano al profano la calligrafica sintassi dell’elettrocardiogramma, ma ne sfumano la nervosa consecutio. O sono piuttosto certi effetti di colatura e di assorbimento del colore quelli che, alternando filamenti a sfocature, fingono meglio le alterazioni dei segnali catodici. E intanto registrano le strane energie che si agitano nello spazio intorno.
Le Squadre plastiche, del 1988, sono una presenza alquanto stonata nell’insieme, giustificata appena dalla cronologia anteriore: sono paraste bianche, allineate in ordine scalare, che però non scandiscono un’architettura già profilata, ma risaltano sul muro bianco solo perché un margine colorato le stacca sul fondo neutro. Dopotutto elementi che arredano ma senza riempire, e che riempiono senza saturare; soluzione minimal, ultrapiatta ed elegantissima, molto lontana per sobrietà dalle soluzioni sognanti e spiritose che rivediamo in un’ultima opera sempre in mostra, una mensola a muro da cui spuntano taglienti cristalli, portati come se fossero misteriosi gingilli.
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Complimenti x la recensione: puntuale e calzante!