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Per Yoko Miura (Tokyo 1975; vive a Nova Milanese) l’opera d’arte non ha un centro. Ma fa il vuoto intorno. Imita indisturbata qualcosa, che alla fin fine le sfugge. E soprattutto rinvia altrove, all’ambiguità di un che di non-definito. Iperrealismo, si è detto, e in certi casi soltanto: ma a ben vedere, anche quando l’artista non indugia in perfettismi maniacali, la sua tecnica insiste sulla qualità che si manifesta generando la serie in modo naturale. Natura naturans e Natura naturata: le forme scolpite nell’argilla procedono verso una configurazione che va dalla maquette cruda e appena sbozzata per le silhouette umane, al calco, simile a un esemplare imbalsamato, per le silhouette animali. Eppure nessuna di queste forme s’impone una per tutte, ma ognuna è bloccata in un fremito, aspetta quasi di animarsi come un carillon a cui si dia corda per farlo suonare.
Così il polpo gigante che con viscida e disossata indolenza, risale i muri della Galleria e annaspa sul pavimento con foga scomposta, in una danza sbrindellata di tentacoli sciolti. Così pure la galleria di pesci-gingillo, plasmati nel das come simulacri venerandi ma così ben contraffatti “dal vero” che verrebbe voglia di profanarli con un dito fino a farli guizzare, per vedere se non siano vivi come sembra.
E intanto una folla di minuscoli prototipi di essere umano si dà da fare in improbabili saliscendi lungo tragitti campati in aria e scale alla Escher, viae crucis al seguito di sparuti compagni di sventura. Altrove si accalcano in falangi di inermi, irreggimentate alla volta di un solo indecifrabile destino.
Esecutori di un ordine incontestabile, questi omini vanno a tastoni, incespicano e brancicano urtandosi al limite della fusione reciproca, si affollano in perimetri asfittici, sull’architrave di una porta o su un rozzo piedistallo. Non ci è dato sapere se siano spauriti e disorientati, hanno i volti cancellati dalle impronte digitali dell’artista, che li ha creati a colpi di polpastrello. Che sia una fabbrica di automi?
La visita è lei stessa un’avventura: movimentata dal tentacolo mutilato che arranca tra i piedi di chi entra, dalla curiosità di chi si domanda se non sia capitato al mercato ittico, e di chi insegue con gli occhi il ritmo montante del popolo di argilla affaccendato in moti inspiegabili e alienanti gesta collettive.
Duplicazione, contraffazione, moltiplicazione, omologazione: l’eterno dilemma dell’arte, la verifica della sua originalità, è in fondo anche il dilemma dell’uomo. Diffidare dall’imitazione, questo è il problema. E nella diffidenza insinuare la via d’uscita dal circolo vizioso dell’arte come identità perduta, Altera Natura. C’è un’imitazione buona e una cattiva: Yoko Miura docet.
carmen metta
mostra visitata il 25 maggio 2006
Yoko Miura – Napoli, Not Gallery Contemporary Art Factory, Piazza Trieste e Trento, 48 (centro storico) – 80132 – Orari di visita: dal lunedì al venerdì 13,30-19,30 – Sabato e domenica e dal 1 luglio su appuntamento – Info: 0810607028 (info), 0810607028 (fax) – info@notgallery.com
[exibart]
che pesantezza in opere poco pesanti…pochi grammi.
brutta brutta brutta
Credo che l’analisi/critica delle opere di una Artista Giapponese non possa essere interpretata ,come in questo caso con la lente della cultura occidentale!Bisognerebbe capire il vissuto dell’artista e la filosofia che c’è dietro!Singole unità-opere per un racconto/ambientale di un modo di vicere e porre problemi?Come un giardino giapponese dove semplici elementi roccontano l’universo?Credo che oggi la critica debbe “attrezzarsi”di strumenti culturali multietnici ,una volta impensabili!Cosa ci raccontano i sassi ,la sabbia rastrellata di un giardino giapponese?
Cari Carlo e Antonio,
se le vostre polemiche avessero la stessa grazia che ripongo nei miei testi.. non sarei io lo scrittore! Dunque, vi perdono l’insolenza. Ma non la “leggerezza”: Yoko vive e lavora in Italia,e se non credete a me, abbiate cura di risalire a lei, ma senza supposizioni; i problemi a cui accenno non sono problemi “occidentali” (l’alienazione, p.e.); l’imitazione della natura nella tradizione giapponese è un esercizio serio e severo, mediante il quale il pittore si affranca dal mero stato di creatura, con squisitezze filosofiche e tecniche che non eliminano la connaturalità del problema con l’Occidente; per non dire che l’imitazione del maestro è un prassi che sfiora l’ossessione nella tradizione estremo-orientale.E che il giardino zen a cui Antonio si riferisce è un caso particolare di quella. Che però, mi dispiace, qui non abbiamo.
Detto questo, il giornalista non è un esecutore testamentario!
Alla prossima, e grazie per l’occasione:-)
Chi si pone nei panni del CRITICO accetta anche le critiche senza stizzirsi ma con rispetto ed educazione!Altrimenti cambia mestiere!Non tutti sono essequiosi!Grazie!
Caro Antonio,
mi pare di aver accolto le tue critiche e di averle anche elaborate! Se poi non sei d’accordo con la mia “difesa”, hai tutta la libertà di attaccarmi ancora! Ma la coda di paglia no, Antonio, che con questo caldo non si sa mai..
se le vostre polemiche avessero la stessa grazia che ripongo nei miei testi.. non sarei io lo scrittore! Dunque, vi perdono l’insolenza.
Ma non la “leggerezza”: Yoko vive e lavora in Italia,e se non credete a me, abbiate—-etc!
Vedi questa è la tua modalità non la mia!Il problema e che non si è abituati al confronto serrato!Puo’ darsi che un parere diverso stimoli la curiosità!Ma occorre disponibilità e saggezza!Se poi sei in cerca di complimenti ?Inoltre un pezzettino di coda l’abbiamo tutti!:)
No Antonio,
non sono in cerca di complimenti, e sono già contenta della tua attenzione. Solo avrei apprezzato se dietro la modalità pungente che ho adottato per rispondere alle tue ispide illazioni, tu avessi visto la mia buona volontà a ragionare su quanto detto. Non è stato così..
Ricambio il tuo sorriso:-)