Anche
De Chirico, in fin dei conti, aveva presentito che il “dentro” e il “fuori” sono categorie conoscitive piuttosto che immutabili realtà di fatto quando, nei suoi paradossali scenari metafisici, apriva finestre e porte che confondevano, più che delineare, i confini fra interni ed esterni. E mai come oggi si vive quell’ambigua dimensione dell’essere nella realtà virtuale, l’unico territorio la cui topografia può vantare il quasi teologico status di essere ovunque e in nessun luogo allo stesso tempo.
L’angosciante straniamento dechirichiano lascia però il passo negli scatti di
Marco Cadioli (Milano, 1960),
Antonello Segretario (Caserta, 1973) e
Marco Zagaria (Napoli, 1969) a una inebriante sensazione di potenziamento ontologico, alla sperimentazione di come l’interfacciarsi tra luogo reale e virtuale generi non una scissione dell’esperienza, ma un interminabile caleidoscopio di rimandi, capace di moltiplicare sempre nuove connessioni.
Di fotografia si parla a buon diritto perché, anche se lo scenario in oggetto è quello digitale o del web, invariate restano le dinamiche di scelta dell’inquadratura o del soggetto, e lo scopo di svelare attraverso esse l’anima del mondo rappresentato, a cavallo fra essere e non essere. Già l’ingresso nella location “terrena” di Overfoto induce il primo sconfinamento, con la proiezione della parallela mostra su Second Life.
Il movimento fra terra reale e digitale è stigmatizzato didascalicamente in
The Island di Segretario, debordamento dell’isola venduta sul web in un vero prato già impacchettato a zolle per eventuali compratori: trasposizione analogica fra dato virtuale e concreto, in grado di innescare un’ironica e in parte attonita presa d’atto del carattere ormai immateriale di merci e scambi economici.
Non stupore ma militante consapevolezza è invece quella di Zagaria.
Giulia,
Litigio e
Tony (esposto quest’ultimo solo nella cybermostra su Second Life) incorporano nell’unico livello della foto digitale ritoccata i due piani della concretezza degli sfondi e dell’artificialità dei personaggi. Modificate digitalmente fin quasi a tramutarsi in androidi, le figure umane emergono, assurdamente irreali, dall’assoluta plausibilità degli ambienti che le hanno partorite, traumatico
memento di come il mondo sia solo illusoriamente naturale e già inesorabilmente post–tecnologico. Compito dell’artista è ormai soltanto quello di
“scoprire le carte”.
Entusiasticamente a proprio agio nel virtuale sono invece gli avatar di Cadioli: sfolgoranti di ottimismo e sature tinte pop in
Dreaming, mistici pionieri di un mondo primordiale ancora scevro del peccato originale in
Rousseau–reloaded, sentono germogliare vergine in sé il sublime innanzi alla
City gigantizzata dal punto di vista ribassato e alla
Moon nobilitata dalla citazione di Adams.
In fondo, De Chirico aveva ragione: lo spazio più reale è solo quello nel quale desideriamo essere.