Certo è soltanto un caso, ma
James Beckett (Harare, 1977; vive ad Amsterdam) è nato quando alcuni gruppi siderurgici europei hanno iniziato a ridimensionare i propri stabilimenti. Alla fine degli anni ’70, l’acciaio europeo non brillava più sul mercato mondiale. Le svizzere Monteforno e Ferrowohlen, come la nostrana Italsider, chiudevano progressivamente i propri impianti. Con una scelta di campo netta ma flessibile, il giovane artista sudafricano sceglie di raccontare la produzione dell’acciaio a Bagnoli, e quel che ne resta, adottando un approccio multidisciplinare.
Una strategia già abbracciata da Beckett per documentare la realtà produttiva e umana degli storici impianti siderurgici della Tenaris-Dalmine nel bergamasco. Tale evento in calendario lo scorso alla galleria berlinese Luettgenmeijer era il primo allestimento della serie
extract-arrangements, proseguita poi con una personale alla Wilfried Lentz di Rotterdam, dedicata al centro di ricerca e sperimentazione agricola del colosso chimico tedesco Basf a Limburgerhof.
Con il terzo
extract-arrangement, Beckett decide di tornare all’acciaio, pilastro della seconda rivoluzione industriale e feticcio domestico delle (sempre meno casalinghe) donne del boom economico italiano. Questa volta la scelta ricade sugli impianti dismessi dell’acciaieria Ilva-Italsider nel quartiere napoletano di Bagnoli. Ne viene fuori un piccolo museo aziendale didascalizzato e allestito con un rigore documentario decisamente insolito per uno spazio privato.
Talvolta i facsimile aziendali di parti dei macchinari – stampi per guarnizioni, ingranaggi – sono accostati sulle pareti alle loro repliche in legno. Filtri per olio, borracce, vecchi manuali d’uso sono disposti con zelo nelle teche scelte dall’artista per l’allestimento. Oggetti di piccole o medie dimensioni, con un’eccezione rappresentata da una pala per il raffreddamento lunga 250 centimetri, che giace sul pavimento come uno scheletro animale in un museo di paleontologia.
Beckett è consapevole che la cultura aziendale è allo stesso sempre schematica e partecipativa, convenzionale e ricreativa. Ecco allora la cravatta della ditta insieme al suo stampo in legno, una coppa-trofeo in ottone, l’immagine di una fotografia balneare dei ragazzi del quartiere ricamata su tela in grigio e nero, e la copia di uno scatto del 1951 sulla terrazza del Circolo Canottieri dell’Ilva. La parete più brillante e ricreativa dell’allestimento ospita le rilegature metalliche a spirale dei cataloghi della ditta.
Oggetti d’affezione arrugginiti e seppelliti sotto la cenere degli impianti di Bagnoli in via di demolizione. Non è difficile immaginare che un filo-dadaista li utilizzerebbe volentieri per costruire una versione moderna delle macchine picabiane.