Anestetizzati come siamo dalla chiassosa velocità che ci circonda, entrare nelle due piccole sale dello studio napoletano Trisorio e trovarsi di fronte alla morbida essenzialità delle immagini di
Luigi Ghirri (Scandiano, Reggio Emilia, 1943 – Roncocesi, Reggio Emilia, 1992) può essere un’esperienza forte, capace di rilasciare lentamente e in silenzio tutta l’efficacia di un meraviglioso e tagliente ossimoro.
Le opere in mostra sono state selezionate dal Fondo Luigi Ghirri e appartengono per lo più – tra
vintage prints degli anni ’80 e
modern prints recentemente realizzati per la cura di Paola Ghirri – alle serie
Paesaggio Italiano e a
Il profilo delle nuvole.
Entrambi i progetti, cui il fotografo si dedicò a partire dal 1980, senza mai abbandonarli, sono relativi a una costante riflessione sul tema del paesaggio e dell’identità della sua terra, con un approfondimento sul concetto di architettura, per l’artista imprescindibilmente legata al luogo che la ospita, in un dialogo silente e spontaneo col
genius loci. Richiamato dalla poesia implicita nel pathos naturale delle cose, Ghirri ritrae paesaggi spogli e desolati dell’Emilia Romagna, impregnati di nebbia o sferzati dal vento, in una sospensione del tempo e della storia che li rende eterni e spirituali, anche in assenza di anime.
Le immagini sono semplici, dai colori tenui se non bicromatiche, e mirano a un minimalismo che, seppur seriale, va al cuore dei significati, lungo un percorso d’intima profondità. Cabine sul mare, ombrelloni, cancelli, un campetto da calcio rappresentano i luoghi d’una memoria che si vuole raccontare, simulacri di una trama del passato che in certi punti si è lisa e che può esser lasciata nella sua vaghezza alla libertà del pensiero e dell’immaginazione.
Come cartine sgualcite di un viaggio esistenziale, che squarcia l’aura privata, spingendosi sino a racchiudere i profili immobili e consolatori di un paese antico e provinciale, sempre più levigato dalle onde schiumose della modernità.
Per oltre vent’anni, il filo rosso della meraviglia, suscitata da un’instancabile osservazione della realtà, attraversa il lavoro di Ghirri. Una ricerca portata avanti con calma, con coerenza, “
con quel modo oggettivo, sobrio fino all’allucinazione entro il ‘tono’ (l’umore) d’ogni giornata”, com’è stato detto da Arcangeli per
Morandi, alle cui residenze-atelier il fotografo – in una campagna di documentazione datata 1989-90 – dedicò oltre quattrocento scatti. Con uno sguardo sempre rinnovato sulla quotidianità, che si fa messaggera di inusuali letture e d’infiniti tragitti percettivi, come pure s’intravedeva, in anni vicini, dietro alle macchine da presa di
Fellini e
Antonioni, indaffarati negli stessi luoghi in un ricercato quanto attonito
Amarcord.
Il percorso è breve ma intenso, attorno a diciannove foto da guardare con occhi vergini, per riuscire ad assaporare, di nuovo o per la prima volta, la dolcezza di quelle forme e di quei pensieri che la sciatteria del quotidiano e i condizionamenti esterni hanno reso trasparenti. Rimarcando ancora una volta il ruolo significativo di Luigi Ghirri nell’ambito della fotografia contemporanea.