Ancora arte contemporanea nel tempio partenopeo dell’archeologia,
con un’installazione di
Giulio Paolini (Genova, 1940; vive a Torino),
L’Ora X (Né prima
né dopo),
presentata nella maestosa Sala
della Meridiana.
L’artista ligure da circa mezzo secolo non smette di porsi
domande, orientando continue riflessioni sul tempo e sullo spazio dell’arte,
sino ad arrivare in tempi recenti a definire l’opera “
un’eternità regolata e
misurata dallo spazio”.
Con questo nuovo progetto site specific per il Mann, nella
cui città lo scambio intellettuale va avanti dai tempi di Lucio Amelio, Paolini
aggiunge un mattoncino alla sua rigorosa costruzione sul processo creativo. Attraverso
l’esibizione dei suoi più tipici strumenti da lavoro (cavalletti, carta,
matita, calchi di gesso, particolari architettonici classici), l’artista mette
in atto la scena, appoggiandola nel centro della sala, proprio sulla linea
della meridiana realizzata nel 1791 dall’astronomo di Ferdinando IV di Borbone,
Giuseppe Cassella.
Dentro una luce lieve
e all’interno di un corpo che si legge unico, sono affiancate a scandire il
tempo dodici opere, come le dodici ore dell’orologio. Accanto a quattro lavori
recenti, in parte rivisti per l’occasione –
Tre per tre (Ognuno è l’altro o
nessuno),
Alfa
(Un autore senza nome),
Omega (Il corpo dell’opera) e
Capogiro (Lo sguardo dello spettatore) – compaiono altre otto opere,
sotto forma di proiezioni a ciclo continuo su lastre trasparenti disposte a
terra e su cavalletti, “
come un caleidoscopio di tanti frammenti”.
Al centro giace la X,
L’ora
X, “
l’ora
temporale, sconosciuta, inattesa, incognita, inconoscibile che si concretizza
nel lavoro di un’opera”. Opera d’arte che, per Paolini, ha un’anima sempre uguale nel tempo,
pur variando invece il suo abito, e che beneficia del privilegio di non sapere
e non voler dimostrare nulla.
L’installazione, posta
con
nonchalance nel cuore della classicità, si offre quale esercizio mentale sul concetto di
tempo, e di fronte a tali memorie si fa prefigurazione del futuro percorrendo
una linea artistica circolare, costretta nella continuità di un modello
immutabile. Il risultato che ne deriva appare come un reperto dell’archeologo-artista,
impegnato a scavare non per talento ma per necessità di fronte ai miti e alle divinità
della storia, volgendo lo sguardo al di là dei fatti contingenti.
“Che c’entra l’arte
con il sociale?”, sembra chiedere. Ma è soprattutto un atto di riguardo
compiuto verso la complessa logica (o non logica) della rappresentazione
artistica, dove in un cerchio di sguardi mentali e fisici il modello diventa
spettatore.
Un’opera complessa e
“pensosa”, dunque, come un rebus di cui non si trova la soluzione. Un’ipotesi
indimostrabile di verità che ha spinto, in conferenza stampa, la moglie
dell’artista a dire con schiva semplicità a noi che insistevamo per capire: “
Questo
è solo il suo pensiero!”. Quasi a invocarne il silenzio.