Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Da un punto di vista strettamente toponomastico, il paradiso esiste ed è sempre stato vicino a noi. Prima come uno spazio recintato, diviso tra una zona coltivata e una selvaggia per la caccia, riprendendo l’etimologia della lingua sacra avestica e la tradizione persiana dei parchi dei sovrani achemenidi, poi nella diffusissima rappresentazione agostiniana di un lussureggiante giardino ricco di fontane. Risale al Medioevo, invece, l’immagine urbana, legata alle architetture di Gerusalemme e Costantinopoli, identificate come città celesti, manifestazioni terrene della beatitudine eterna.
Alle tracce lasciate dal paradiso sulla Terra, ai simulacri innalzati e abbattuti dall’utopia edenica, con tutte le diramazioni sociali ed economiche del caso, è dedicata la ricerca errante di Sergio Vega (Buenos Aires, 1959) che, in occasione della sua terza mostra negli spazi espositivi di Umberto Di Marino, racconta l’esperienza di Cuiabá, capitale dello Stato del Mato Grosso. «Qui l’architettura tropicale instaura un certo dialogo con la natura, non per mimetizzarsi ma per competervi», ci ha detto l’artista, «mi interessa l’idea di un eden ricostruito dall’architettura, quei tentativi compiuti dall’uomo per portare il paradiso sulla Terra», in particolare nel Nuovo Mondo. Quando i Turchi conquistarono Costantinopoli e Gerusalemme, bloccando le vie del commercio con gli imperi orientali, anche il paradiso doveva cambiare collocazione, da est a ovest, possibilmente oltre le Colonne d’Ercole, a mari usque ad mare, e i primi esploratori che raggiunsero il nuovo mondo, l’America Latina, pensarono di essere approdati alle coste dell’eden. Dopo mesi trascorsi a combattere flutti, scorbuto e ammutinamenti, masticando gallette e carne secca, si trovarono di fronte a una superba rivelazione del messaggio divino, un’epifania di sabbia bianca, vegetazione rigogliosa, mare cristallino, colori iridescenti, intrecci di forme sinuose e profumi soavi, un luogo incontaminato. Ancora oggi, i tour operator la pensano più o meno allo stesso modo e questo la dice lunga sugli strascichi del colonialismo.
Tutto ebbe inizio alcuni anni fa, quando Vega trovò un’antica e dimenticata edizione de “El Paraiso en el Nuevo Mundo”, scritto nel 1656 dallo storico e giurista spagnolo León Pinelo. Come spesso capita nei romanzi, è l’occasione fortuita a dare avvio alle trame più avvincenti e proprio da quel momento si è dipanata una storia complessa, con scoperte inattese e colpi di scena, personaggi e incontri, che ha portato l’artista argentino – da anni a New York, un’altra terra promessa, non solo per i protestanti inglesi – in giro per il mondo, seguendo un filo doppio, in cui si incontrano i paradisi e i nuovi mondi, la natura e l’artificio. “Paradise in the new world” è qualcosa di più di un progetto, una sorta di diario totalizzante che comprende segmenti distanti della conoscenza, pensieri sciolti, ricerche bibliografiche, situazioni impreviste, storiografia e antropologia, pittura, scultura, fotografia, architettura, suggestioni musicali. Tale racconto non finito, si esprime in una impostazione estetica d’impatto, tendente a integrare forme, materiali e linguaggi con l’ambiente espositivo, come nel caso di Tropicalounge, l’installazione presentata alla Biennale di Venezia del 2005.
Per la mostra che apre la stagione espositiva della galleria napoletana, Vega presenta un’installazione che si estroflette negli spazi con immediatezza visiva. Ampie campiture e inserti di colori accesi si sovrappongono a fotografie in bianco e nero che ritraggono l’ampio raggio dell’architettura brasiliana, dai patchwork improvvisati delle favelas alla statica storicizzata del modernismo di Oscar Niemeyer, Lucio Costa e altri. In questo dialogo tra immagini e geometrie, tra diversi livelli di profondità e di costruzione, si intuisce un’ironia di fondo che lascia avanzare il sospetto di una crisi tra forme e tra funzioni. L’urbanistica modernista sognava un eden percorribile, uno spazio organizzato secondo regole auree ma, inseguendo tale ideale di perfezione, ha creato paradisi di illuminazione artificiale e oscure zone di intersezione. Imitando l’equilibrio delle forme naturali, degli alberi da cocco e di mango, ne ha confuso i simboli. Un «modernismo tropical» dai tratti onirici, ironicamente distopici, è entrato in conflitto con le infrastrutture dell’eden, edificando strade e palazzi folli come sciamani di cemento che danzano al ritmo della bossanova, vestiti con piume di pappagallo, unica tra le specie animali ad aver conservato il dono della parola, retaggio di un paradiso non dimenticato.
Mario Francesco Simeone
Mostra visitata il 30 settembre 2016
Dal 30 settembre al 18 novembre 2016
Sergio Vega, Shamanic Modernism: Parrots, Bossanova and Architecture
Galleria Umberto Di Marino
Via Alabardieri, 1 – 80121, Napoli
Orari: dal lunedì al sabato, dalle 15.00 alle 20.00
Info: info@galleriaumbertodimarino.com