Per la seconda volta, quasi per caso, il Madre si trova a omaggiare un personaggio scomparso di recente. Era successo con
Luciano Fabro, succede ora con
Robert Rauschenberg (Port Arthur, 1925 – Captiva Island, 2008), caposaldo del Novecento spentosi nel maggio scorso. Già transitata per Porto e Monaco di Baviera, la mostra non nasce quindi come antologica celebrativa; piuttosto, l’accento è posto su un periodo ben preciso dell’attività dell’artista (1970-1976), con una serie di lavori perlopiù sconosciuti al grande pubblico, fortemente legati al soggiorno di Rauschenberg sull’isola di Captiva e ai numerosi spostamenti in giro per il mondo.
Non un percorso cronologico, dunque, ma un allestimento che privilegia l’accostamento di opere di serie contigue, che spesso condividono i materiali ma non le forme. Si comincia così con i
Cardboard, scatole di cartone aperte e giustapposte, che rispondono alla dichiarata esigenza dell’artista di “
lavorare con un materiale di scarto dalla consistenza leggera”. Come per il celebre
Letto del 1955, l’oggetto d’uso comune viene sistemato a parete, ruotato dal piano orizzontale a quello verticale, silenziosa provocazione verso ciò ch’era stata l’Action Painting (o, almeno, più silenziosa dell’ancor più celebre “cancellazione” di
De Kooning). Ciononostante, Leo Steinberg non esiterà a individuare in lavori di questo genere un nuovo paradigma, definito
flatbed: un’orizzontalità intesa come piano da lavoro, una sovrapposizione di elementi raccolti dal quotidiano per annullare “
l’intervallo tra arte e vita”.
Ancora in riferimento ai primi anni ’50 può essere letta un’opera come la striscia di battistrada in mostra (
Untitled Venetian, 1973): non più l’impronta dello pneumatico (
Automobile tire print, 1953) ma l’oggetto vero e proprio, sistemato a suggerire una gondola veneziana.
Tornando alle scatole di cartone con le originarie scritte d’imballaggio, si potrebbe sollevare la questione Pop/non-Pop: attenzione ai marchi dei prodotti e al sistema di trasporto merci o scelta solo materico-strumentale? Non è la mostra giusta per dare una risposta tanto impegnativa, tanto più che, negli anni ‘70, i giochi (pop) erano ormai fatti. Diremo solo che le suggestioni più efficaci sembrano provenire non dal sistema consumistico-occidentale, quanto da quello orientale, con lavori fatti di luci, ombre e colori. È il caso delle
Pyramid Series, innesti di carte bianche e tessuto, o della serie
Early Egyptians, scatoloni ricoperti di sabbia a suggerire monumentali blocchi di pietra, in realtà leggerissimi al tocco. Il retro, dipinto con vernice fluorescente, riflette luci colorate sulla parete, le stesse di quell’Egitto dove Rauschenberg non ebbe modo di andare.
Soggiorni fondamentali furono invece quelli in Israele, in occasione della mostra del 1974, e in India, dove l’artista lavorò in un centro di produzione tessile. Proprio da quest’ultimo nasce la serie dei
Jammer, collage di tessuti colorati spesso sorretti da leggere canne di bambù. Un intervento perfettamente
à pendant con quello che si scorge dalle finestre del museo affacciate sull’esterno, dove panni colorati ondeggiano al vento piuttosto che al passaggio degli spettatori.
Tessuti trasparenti – “brinati”, come vuole il titolo – danno invece vita agli
Hoarfrost, palinsesti di materiali e immagini realizzati con la tecnica del
transfer-drawing. In filigrana, ritagli di giornale e frammenti. Scarti scelti, ancora una volta, come punto di osservazione sulla vita.
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Una mostra settaria, monotona, sciatta e arrogante, come molte di quelle presentate al Madre, che disorienta chi volesse capire chi era Rauschenberg, offredone una visione estremamente parziale, infischiandosene in tal modo del compito didattico di un'istituzione pubblica. Del resto, i perché di talune operazioni si precisano nel momento in cui si riflette sul fatto che la curatrice è la moglie del capocuratore del museo (alla faccia del familismo e del buon gusto). Certo, la signora magari è in gambissima e non è giusto che sconti il suo matrimonio come una condanna, ma non risulta certo molto attiva nel settore curatoriale...
Far curare la mostra a Mirta d’Argenzio, che è la moglie di Mario Codognato, è un atto di terribile arroganza.
Provo disgusto. Se questo deve essere il museo di arte contemporanea della mia città preferirei vederlo chiuso (anche il giovedì), piuttosto che continuare ad assistere alle malefatte di questi loschi figuri.
Vi dovete mettere scuorno!!!!!