Mirano in alto i padroni di casa, affidando l’apertura della nuova stagione espositiva a nomi d’inequivocabile richiamo e fascino.
Tim Rollins (Pittsfield, 1955; vive a New York) e i
K.O.S. – acronimo di
kids of survival – si misurano con l’ambiente più piccolo della galleria, mentre quello ampio tocca a Ugo Rondinone.
Il team americano s’insedia nello spazio con tre imponenti tele rettangolari, interamente rivestite dai fogli della partitura delle
Metamorphosen, l’ultima fatica di Richard Strauss. L’opera, scritta nel dopoguerra, sintetizza nel ritmo greve e sincopato degli archi l’atrocità della catastrofe appena conclusasi. Rollins invita “
i suoi ragazzi del Bronx” – sottratti alla strada e coinvolti in un progetto laboratoriale creativo che dura da venticinque anni – a confrontarsi con la tematica bellica. Chiede loro di esperirla attraverso le note del compositore tedesco, affinché il ricordo di un brandello di storia ormai cristallizzato nella memoria collettiva e troppo distante da quella delle
new generation riaffiori con la gestualità artistica.
Il risultato formale è una stesura pittorica aerografata e sgocciolata, un dripping nei toni del nero china, saturo fino all’annullamento dei pentagrammi nel primo dipinto, diluito nel secondo, diradato nell’ultimo. Un percorso cromatico inverso rispetto alla sequenza vista due anni fa, quando il
Winterreise di Franz Schubert veniva gradualmente azzerato dall’acrilico bianco.
Questa volta la lettura da destra a sinistra emula il fumoso e fuligginoso boato d’uno scoppio, e la progressiva dissolvenza delle polveri. Un’interpretazione evocativa e partecipativa di giovani che quotidianamente combattono la loro battaglia per la sopravvivenza, individui per cui l’arte è, non in potenza ma in atto, un’opportunità di affrancamento e trasformazione.
Quest’atmosfera corale è armonicamente contrappuntata da quella inquieta e intimistica dell’elvetico
Ugo Rondinone (Brunnen, 1964; vive a New York), scandita da un gruppo di
still.life. allestiti con estrema discrezione e calcolato equilibrio geometrico: due tronchi di pino posizionati ad angolo retto; una vecchia porta poggiata alla parete; ritagli di polistirolo addossati al muro; un mucchietto di limoni disposto sul pavimento. Sembrano veri, ma non lo sono. Tant’è che, per insinuare il dubbio sulla loro autenticità, è necessario aguzzare la vista, ma per la conferma bisogna toccare. Solo così si scopre l’inganno di queste iperreali sculture fuse in bronzo e aggravate dal piombo di cui sono imbottite.
Natura e artificio appaiono immortalati in un
landscape temporalmente e spazialmente ibernato, in cui l’inarrestabile disfacimento materico è neutralizzato per via simbolica nei fittizi
object trouvé. L’artista plasma un inanimato e inamovibile universo metaforico dove nulla è ciò che appare, dove ogni verità si rivela umanamente inafferrabile e insostenibile. Eppure, quella singolare punteggiatura tra
still e
life non deve’essere casuale. “C’è ancora vita”, sembra voler suggerire. Nonostante tutto.
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Una mostra da museo!bellissima.
Bella la colonna al centro della stanza, sembra di essere lì da sempre.
bella mostra e bella recensione