Ecco una mostra che parla alla coscienza relazionale e sociale, e non solo al nervo ottico e alla
ratio. L’arte che nasce da un reale itinerario esistenziale non può che aprire concreti luoghi di profondità. L’etica insieme all’estetica, significati generanti
senso oltre che concetti.
Gli squarci fotografici strappati da
Yvonne De Rosa (Napoli, 1975; vive a Londra) all’abbandonato manicomio in cui era volontaria sono sussulti di memoria, urgenti attestazioni di un coinvolgimento mai venuto meno. L’artista sfugge alle facili trappole di un’emotività estenuata e languida o di un’opportunistica polemica, preferendo al clamore la deflagrante intensità del sussurro. Assente è l’identificazione del manicomio, per evitare di sperdere in critica localistica una più ampia sensibilizzazione sull’indifferenza verso i malati mentali; mancanti quasi del tutto i volti dei ricoverati, solo evocati dagli oggetti loro appartenuti; rifiutato, con rigore morale ma anche artistico, il trauma che produrrebbe non vera comunicazione ma effetto, da cui non ha bisogno di farsi blandire l’obiettivo di De Rosa, forte di una ben più intensa sensibilità epidermica.
Proprio dalla “pelle” esterna dell’edificio, dai suoi spazi pubblici e comuni inizia il percorso, che mira a un avvicinamento sempre più intimo ai degenti, e quasi a riprodurre il loro ingresso nell’ospedale. Alla reclusione condannano le grate, di spersonalizzazione è minaccia lo schedario, l’annullamento nell’indifferenza è preconizzato dalla fatiscenza dei luoghi. L’obnubilamento nella follia, ma soprattutto nell’abbandono da parte dei propri simili, è replicato dallo sfocato dell’immagine, il senso d’insormontabile oppressione dal punto di vista ribassato, il disorientamento dall’inquadratura decentrata.
Inchiodano alla cruda realtà alcuni lucidi primi piani su inesorabili prove d’incuria. “
Dio Pazzo” urla un graffito sul muro, unica voce concessa a chi si crede non abbia nulla da dire. Ma è l’artista a restituir loro l’espressione e lo sguardo, nelle foto alle struggenti lettere dei ricoverati e nel video che, allestito in una suggestiva “feritoia”, ricorda quanto negati e celati dal perbenismo fossero gli occhi dei malati. L’“innocenza” proclamata, la “morte” invocata, altre disperate grida sulle pareti non servivano a soccorrere dall’inconcepibile indifferenza testimoniata dagli scatti: calcinacci, suppellettili incrostate di sporcizia, una dentiera incredibilmente persa e mai restituita.
Persino i santini spiegazzati sembrano sordi ai richiami, come del resto assente dal decrepito presepe è ogni figura sacra. Eppure su tutto, lieve come una carezza nella memoria, l’artista riesce a posare la poesia del suo obiettivo: cromatismi caldi, quiete melodie compositive, dettagli di inaspettato lirismo. Un abbraccio attraverso il tempo, per provare che, se folle è Dio ad abbandonare i suoi figli negletti, più saggi possono essere i loro fratelli.