Dura parlare di specificità orientali nell’era dell’omologazione. Ancor più se si accostano con coraggio la Georgia e l’India. Eppure, la decisione di unire l’ex Urss di Asatiani al Deccan di Kiran Subbaiah e Suhasini Kejriwal non genera fratture, ma riflette più a fondo sul senso di peculiarità, scongiurando l’esotismo. Colpisce dell’allestimento il fatto che le opere non sono separate per provenienza, ma mescolate in un percorso che illumina di nuovo un’altrimenti troppo ovvia lettura geografica.
La sala introduttiva inizia il visitatore-viaggiatore all’itinerario con una veduta a volo d’uccello di
Marika Asatiani (Tbilisi, 1977),
Achara-Untitled, che mostra con impietosa oggettività le casupole e i campi della regione georgiana. Impossibile non ricollegare la pragmatica rappresentazione, che evidenzia le concrete condizioni di lavoro dell’area, con la lunga influenza marxista, connotata di materialismo storico, ricevuta dalla Georgia.
Dal realismo alla poeticità del sogno: la seconda stanza schiera deliranti onirismi.
Flight Reharsals di
Kiran Subbaiah (Sindapur, 1971), video di compiuta padronanza cinematografica e formale, espone con elegante e surreale ironia le prove di volo dell’artista, che partendo da uno stringente quanto assurdo sillogismo sofistico si convince di avere i requisiti per volare e attua ragionamenti ed esercitazioni che hanno il concettualismo e la ferrea metodica delle azioni di
Bruce Nauman, ma anche lo spirituale distacco dal realismo e a volte le stesse posizioni fisiche delle meditazioni induiste. Ancora una volta, dunque, il substrato culturale dell’artista emerge da un’opera per molti versi “occidentale” nella tecnica e nell’aspetto formale, che spesso individua mondrianiane geometrie nell’immagine.
È da ricercare più nel profondo anche l’“orientalità” di
Suhasini Kejriwal (Bangalore, 1973): è certo infatti che gli
Untitled mettono in scena classici arabeschi floreali asiatici, ma è anche vero che alle volute di fiori ci ha troppo abituato anche la nostra cultura visiva, dal Liberty all’artigianato di
Morris, per poterle realmente percepire come “diverse”. Piuttosto, è nell’onirica e quasi inavvertita germinazione d’insetti e organi umani dai vegetali che si ritrova prepotente la concezione panteista indiana, che non fa distinzioni tra i viventi.
Infine, quasi a stigmatizzare come dal contrasto tra realtà e immaginario nasca l’ironia, la mostra si chiude all’insegna dell’umorismo. Sottile con
Fly di Subbaiah, o con le sue foto che lo ritraggono con indumenti paradossalmente “defunzionalizzati”; più beffardo con le donne georgiane provocatoriamente sorridenti dagli scatti di Asatiani, quasi a sfidare con la loro dignità il nostro pregiudizio sulla povertà.
Realtà, poesia, ironia: molteplici i colori dell’Oriente in uno sguardo che, pur se andando a Est a volte incontra l’Ovest, scopre comunque un’originalità di prospettiva.