Non c’è nascondiglio che tenga agli agguati di Anneè Olofsson. Il respiro breve dei suoi ritratti dura il tempo di un j’accuse: flagranza di reato, identikit di un capro espiatorio, consegna alla Legge di un pentito, autodafè. C’è sempre una colpa invisibile, nascosta dietro l’angolo.
Spietato lo scatto fotografico che condanna senza appello, a risaltare sul fondo immacolato come un insetto sulla carta da parati. Nessuna mosca bianca, però, come a dire che non si salva nessuno. Solo che a stare impalata al grido d’ordine di non sorridere è la famigliola non troppo allegra degli Olofsson, in riga per l’imminente esecuzione (in giudizio).
La famiglia però non viene messa alla berlina. Nei nivei contrasti delle istantanee quel che conta veramente è che sotto lo stesso tiro stiano mamma, papà e figlia. Questi anziani signori che posano come erme post-classiche in formato tessera non sono zimbelli da profanare né genitori da destituire. Sono vittime di una sentenza allo stesso modo in cui lo è l’artista, per questo li vediamo costretti tutti al rito delle foto segnaletiche.
Ma in disparte si consuma un sacrificio: un paio di mani gracili e nodose coprono gli occhi della Olofsson senza che lei opponga resistenza, e nella foto in cui compare nel gesto di sgozzarsi, l’artista si offre come testimone e artefice della sua carneficina, lasciando fuori campo i particolari scabrosi del suo corpo nudo, nell’attesa bloccata che la si scopra indifesa e senza veli.
L’assoluzione dall’accusa che l’artista muove contro la tirannia del suo sangue (noblesse oblige!), contro la schiavitù della somiglianza e dell’obbedienza che la lega ai genitori come alla causa l’effetto, passa per la rinuncia alla tormentata eredità che pesa sui figli come una condanna. E la presenza di tutti i membri della famiglia è garanzia dell’equità della pena: la sublime drammaturgia del compromesso vede processati tutti, nell’impossibilità di salvare uno soltanto. La reincarnazione dei padri tra le pieghe rimboccate della nostra pelle è un fatto al quale non si può sfuggire, tranne che si decida di tacere…
Un video in due atti prefigura la tragica fine dell’artista che cantilena senza sosta episodi di morte cruenta presi in prestito dai quotidiani e recitati come una nuova Spoon River. Il garbuglio delle relazioni familiari esplo
In Say hello then wave goodbye una maschera di ghiaccio ricalcata sul volto della Olofsson si scioglie all’avanzare lento e corrosivo di un liquido inchiostrato che la divora fino a consumarla.
Memento mori nobilitato dal riferimento alla toccante ritrattistica di età romana, col calco che sembra modellato nella cera com’era in uso fare coi defunti. Rea confessa la fotografia? O la scultura? Certo, anche l’immagine muore, sembra di capire. Ma resta la notizia, scabra e difficile, che alla lettura sembra tutta uguale; e resta la storia, sempre banale, a dire che d’amore si muore.
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non male la mostra...suggestivo il cortometraggio evil eye, l'altro forse un po' banale...interessanti gli spunti offerti dalla recensione
intrigante il riferimento alla statuaria romana..non ci avevo pensato.
Cmq da vedere