Pochi ma buoni i colori di Ernesto Tatafiore (Napoli, 1943), che brillano in uno dei tanti “rami” del museo di Capodimonte, destinato ad ospitare pro tempore il contemporaneo. Un ambiente disadorno e luminoso, in cui luccica l’oro impiegato senza avarizia, insieme ai rossi, agli azzurri e ai neri, per dar vita ad una rassegna di big della pittura di ieri e dell’altroieri, scortati, come si conviene, da qualche leggiadra presenza muliebre.
E questa “galleria degli antenati”, in cui s’è accomodato con disinvoltura anche l’artefice, grande lo è innanzitutto nel formato: undici tele di 200 x 260 cm, il cui effetto è esaltato non solo dalla vivacità della tavolozza, ma anche dalle ridotte dimensioni dello spazio espositivo, in cui Tatafiore, che fino a ieri le teste le faceva rotolare giù dai patiboli della Révolution, stavolta consegna a futura memoria effigi stilizzate con un secco e sicuro grafismo, in un complesso stilisticamente familiare e fedele alla sua riconosciuta piacevolezza estetica. Tuttavia, anche nell’erigere questi monumenti egli non ha rinunciato al proprio lepido gusto per il divertissement colto, ironicamente enigmatico e seducente, proprio come le sue celebri donnine, che stavolta s-vestono i panni di muse -Luce Martinetti e Francoise Gilot- chiamate ad ingentilire queste icone un po’ severe e, qualche volta, perfino burbere. Sicché il profilo dell’arrabbiato Picasso dal collo taurino pare intagliato in un medaglione, il “supremo” Malevic è, ovviamente, un tipo spigoloso e quadrato e Velasquez sfoggia albagia tra il fiero cipiglio e le virgole scarlatte sul petto.
Inarrivabile e greve, Tiziano diventa un vulcano dai ripidi fianchi, e ancor più scoscesa è la montagna incantata Beuys che, come una vaporiera, sbuffa a tutto spiano dal mitico Borsalino. Fuma, nel vero senso della parola, pure Brancusi, roccioso come un Dio michelangiolesco e al contempo “morbido come un Cohiba”, come recita la chiosa vergata in saltellante stampatello. Ed è appunto a queste piccole epigrafi, disseminate su tutti i dipinti, che si affida quell’intreccio tra catalogazione totemica e autobiografia che è uno dei caratteri salienti del progetto. Indizi e indirizzi di una caccia al tesoro alla quale però lo spettatore non è obbligato, libero com’è di abbandonarsi al puro memento ludico di una pittura passionale e infuocata, in cui pure i fiori guizzano come cerini, ma che sa darsi una rinfrescata nel carosello di pesciolini che turbinano intorno all’autoritratto, o tra i capelli di Giacometti, vaporosi come uno spruzzo di pioggia, fino a stemperarsi nel grigio dell’“alchimista” Brueghel in zucchetto azzurro, il cui pennello ardente affonda dietro le quinte dell’opera ancora al nero. E chissà che dietro quel paravento non canti pure Tatafiore, compassato intellettuale e raffinato bon vivant, che guada il proprio consumato talento nel pelago malfido del “tributo”, tenendosi in equilibrio tra gioco e rigore.
anita pepe
mostra visitata il 20 settembre 2005
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