Citazionista, e felice di esserlo. S’avvita attorno alle risorse della memoria e all’abbiccì dell’ottica l’esordio italiano di Peter Coffin (Berkley, 1972). L’americano congegna le proprie proposte su una terna di motivi –la spirale, lo spettro cromatico e le associazioni iconografiche– che però non sempre riesce ad esprimersi nella combinazione vincente. Sebbene pochi, semplici e ricorrenti, infatti, i presupposti ispiratori non sembrano aver garantito l’organica realizzazione del progetto espositivo, che affanna nello sviluppare tanto i concettosi esperimenti tecnici, quanto i messaggi concettuali. È il caso, ad esempio, di Blah Blah Blah Blah Blah Blah Blah Blah Mystic Truths, ripresa blandamente ironica di Bruce Nauman, o dell’amarcord contemporaneo di Imprinting, leziosa batteria di piccole foto, quasi dagherrotipi seppiati da salotto crepuscolare, ottenuti ricalcando –anche nel senso più materiale del termine: prima dello scatto le immagini sono state impresse sul pongo- le orme di illustri predecessori. Da Boccioni a Kosuth, da Magritte a Pollock. Deluso l’intento di dar vita autonoma ad una materia generalmente inerte (che invece resta epidermicamente tatuata sulle sindoni color terracotta), prende corpo, piuttosto, un problema di definizione: è appropriato assumere come icone anche immagini non immediatamente e largamente riconoscibili?
Ai grandi magazzini di massa appartengono, indubbiamente, le foto di Rainbow, rubacchiate qua e là nei repertori digitali e sistemate, sul filo dell’arcobaleno presente in ciascuna, in una chiocciola iridata. Cartoline da un kitsch in technicolor, che torna nel tripudio di luci e lucine di Light organ, dove bastano una tastiera e un modellino dell’Empire State Building per fare sinestesia interattiva. Il meccanismo? Facile: pigiando sui bianchi e sui neri, il grattacielo s’illumina in varie tonalità.
Ok, il giocattolo è sfizioso e didattico, ma c’era bisogno di scomodare Goethe e Kandinsky per illustrare l’invenzione? Tanto più che Coffin, dirimpettaio del mitico edificio, non ha dovuto spingere lo sguardo tanto più in là…
Mentre ci ha visto doppio per il Pirate in alluminio massiccio, nel quale gli attributi del tradizionale corredo corsaro (pappagallo compreso) fanno il bis. Povero bucaniere! Come scorgerà i galeoni da depredare con due bende a incrocio magico sulla ghigna orba? Come si reggerà sulla tolda traballante con due gambe di legno? Come se la caverà durante l’arrembaggio con due uncini al posto delle mani? Conciato come un monumento all’assurdo, il vecchio filibustiere diventa così un innocuo ninnolo sovradimensionato, tinto a corrente alternata e radente come una statuina da presepe. Bye bye, headspace.
anita pepe
mostra visitata il 14 ottobre 2005
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grazie exibart!
Concordo pienamente con Anita! Recensione efficace e puntuale.Semplicemente la verità.
Giudizio affrettato e superficiale
Dispiace davvero vedere esibiti artisti d'oltreoceano con materiali così superficiali, mentre Napoli sfratta le migliori risorse in luoghi ostili da Roma in giù. La vita dei nostri artisti è solo Riccardo Dalisi emblema e mito universitario e dall'altra le grandi esposizioni del 900 con aste e musei a far cassa...