Ammalia e respinge con lo sguardo
Walter Picardi (Napoli, 1978) nell’autoritratto fotografico che dà il benvenuto sull’uscio. Magnetico nel suo dolcevita nero, simula un sorriso ipocrita, stampandoselo in faccia col rossetto. Non c’è nulla per cui ridere, sembra ammonire. Presagio di una permanenza tutt’altro che spensierata.
L’ospite ha intavolato un peculiare banchetto, su due livelli. Ai piani bassi, padre, madre e figlio intrappolati in cubici monitor cercano di procacciarsi affannosamente il cibo che cade dalle bocche dell’altra famiglia, commensali dell’
upper class sardonicamente ridotti a meccaniche dentiere. Scenario da
Convivio dantesco dove, però, piuttosto che anelare briciole di sapienza, si brama il superfluo come veicolo di affermazione sociale. Eterna storia di sperequazione, in cui non esistono vittime né carnefici, “
perché siamo tutti colpevoli”. Senza autocommiserarsi, Picardi si fa propositivo, mettendosi alla ricerca della soluzione, a costo di dover invocare i demoni. A questo serve la
bacchetta magica appositamente e metodicamente costruita dopo un attento studio di antichi trattati esoterici. Su di essa è intagliato il cerchio cabalistico, sigillo protettivo da tracciare all’esordio di ogni rituale occulto. Scomposto però in tre forme geometriche. Sciolto, perché le sfide vanno affrontate a viso aperto, senza scudo, “
visto che il mondo non è dotato di antivirus”. Peccato che lo strumento del potenziale affrancamento sia inutilizzabile a causa delle sue spropositate dimensioni. Dunque, non c’è magia che tenga, bianca o nera che sia.
Dato il benservito a una democratica ricerca di benessere diffuso, l’uomo sceglie la via di un catastrofico individualismo.
Homo homini lupus, diceva Hobbes, ma oramai lo è anche per sé stesso. Al punto che, pur di navigare nell’oro e sciabordare nel vizio, è consapevolmente disposto al naufragio. Triste considerazione che prende consistenza, senza mezzi termini, in un vero e proprio
environment. Qui, uno scheletro galleggia in una chicchissima piscina foderata di rossetti. Colma di
sangue blu, allegorico riferimento a una nobiltà tanto corrosiva da ridurre all’osso corpo e anima. Come un’enorme radiografia srotolata a fior d’acqua, l’immagine del relitto umano affiorante dal tetro liquido è penetrante, rivelatrice di un’universale e ostinata ricerca dell’appagamento vacuo e transeunte, figlio di un’ideologia degenere votata al sacrificio per l’effimero.
Eppure, proprio accanto alla vasca si erge imponente una brancusiana colonna di salvagente. Per evitare di affogare basterebbe allungare un braccio e afferrarne uno. Ennesima àncora di salvezza lasciata in giacenza. Una condanna autoinflitta da un’imperante bramosia senza lieto fine. Almeno su questa terra.
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Intensa e prondamente umana, la mostra parla dell'errore e della miseria umana con poesia ed eleganza. Complimenti
una mostra bella e matura. bravo!
belle le opere ma criticabile l'allestimento ed il sito ...... cabib continua a non piacerci