“La nonna dice di non preoccuparsi perché un giorno sarà solo un gioco da ragazzi”. Così –correva il 1973– la saggia vecchietta tranquillizzò la nipotina titubante sulla battigia, mentre dietro due robot s’affrontavano in aspra tenzone. Il giorno è arrivato, la profezia si è avverata, sotto gli occhi della bambina che nel frattempo si era messa a dipingere, trasformandosi in Roxy in the box (Rosaria Bosso, Napoli, 1967, dove vive). La violenza è diventata davvero un gioco da ragazzi. Senza supereroi, ma zeppo di alieni alienati, tipo i due “gremlins metropolitani” immortalati mani sulla patta su uno sfondo Jugendstil che, anziché nobilitarli, ne accentua sarcasticamente la volgare protervia.
Una mostra a tinte forti, cromaticamente e contenutisticamente: colori brillanti e decisi come mazzate, forme piatte ed espanse in un gigantismo da manifesto, linguaggio aggressivo ed esplicito, ma carsicamente attraversato da amarezza. Su tutto, il rigetto degli stereotipi buoni e cattivi relativi alla madrepatria, affermato da un’artista profondamente e genuinamente napoletana, la quale, alla sua premiére personale nella città natale, anche quando inquadra a pennello la magica insenatura del golfo, lo fa scimmiottando una pubblicità maschia e trendy, recuperando l’antico vizietto pop della contraffazione per lanciare quello sciccoso “Martiri” che lascia sulle labbra una traccia scarlatta. Rossa comme ‘o sanghe. Il sangue: linfa per il cinema e i media, elemento onnipresente nell’eloquio e nel turpiloquio partenopeo, parossisticamente celebrato via video in un’orecchiabile litania pop, tormentone minatorio interpretato da un ammiccante gangster frou-frou in foulard griffato e coppola vezzosamente sulle ventitré, sceso col suo corpicino nervoso dalla passerella Dolce & Gabbana anziché dal vertice della Cupola.
Canzoncina canzonatoria, leitmotiv sfizioso di una brutalità praticata per sfizio, che abbraccia una geografia dell’abominio ben più estesa dei vicoli sotto casa, che dai territori “occupati” a livello globale va ad insediarsi insidiosamente in un posto dal quale è ben più difficile sradicarla: la normalità. Una routine subita quotidianamente con insofferenza e disillusione, tanto da vanificare i sogni e le speranze recisi da quei “Cento colpi di sega”, pessimistica e simbolica parafrasi del rituale col quale l’universo muliebre riusciva a ritagliarsi un momento di riflessione e di quiete. Donne e nonne, ancora. Come Kill Banana, mitica venditrice di un quartiere popolare calata nei panni gialli della Sposa. Non sarà la favolosa Uma Thurman del cult tarantiniano, però, con la sua faccia grinzosa da prugna, davanti alla sua bancarella chissà quante ne ha viste passare di Pulp… azioni. Appassita e impassibile testimone di quanto sia davvero Duro da tener duro. Specie quando t’illudi di tenere in pugno una vita che fa acqua (e sangue) da tutte le parti.
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anita pepe
mostra visitata il 14 dicembre 2006
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