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fino al 20.IV.2009 | My Space | Napoli, Pan

di - 23 Gennaio 2009
È multilivello e intrinsecamente contrastato il secondo agone del Pan a confronto col “bene comune”. Stabilire cosa è pubblico o privato, nell’era della superesposizione mediatica, del degrado sociale e della privacy in fumo, è imbattersi in paradossi e duplicità.
Paradossi che si specchiano nelle opere in mostra, in cui i lavori meno appariscenti sono i più stimolanti per il dibattito; duplicità che sfugge, però, a un automatismo manicheo tra spazio esterno e interiore, abbinando opere delineanti i confini dello spazio pubblico in una prevalente ottica concreta ad altre che ne indagano il traslato metaforico e psicologico, sovvertendo anche l’iniziale lettura.
Si parte con la sardonica critica di Cesare Pietroiusti alle istituzioni dell’arte, incapaci di coinvolgere larghe fasce di popolazione: silenziosa, a-teatrale, esterna allo spazio espositivo, eppure estremamente pregnante. Riscalda dal gelo dell’esclusione la cupola dell’abbraccio tessile di Kaarina Kaikkonen, scenografica o, meglio, “coreografica”, dato che dirige evocate presenze esistenziali in un rito di partecipazione che, da architettonico, diviene psichico. Accattivante pur se omologatamente neopop – come industriali caramelle visive offerte alle viziate papille ottiche del pubblico, intossicato dall’immagine mediatica – il video di Mieke Gerritzen, inquieto e con l’amaro retrogusto della manipolazione.
L’avvolgente architettura di Sissi fluisce dal reale a un lirismo proseguito dalla silente opera-performance di Sabrina Mezzaqui, che coniuga magistralmente intimismo e impegno, scansione emotiva e spaziale, esperienza ed estetica. “Abbracciando” col passo l’inno di Borges si restituisce ritualmente centralità a I Giusti e si performa lo spazio, acquisendone coscienza e svelando l’euritmia di una forma insieme pittorica e scultorea.

Anche il silenzio di Niklas Goldbach nel sottovoce degli impercettibili disegni deflagra intenso nella denuncia delle periferie egualmente invisibili allo Stato, evocate anche dal più oleografico Fikret Atay. L’opposto clamore di Giuseppe Stampone, coinvolgente ma bozzettistico, porta alla coscienza del virtuale, mentre il non inedito funzionalismo ipertrofico di Michael Beutler evidenzia l’inutile nelle strutture sociali.
Lorenza Lucchi Basili riflette non senza consapevolezza tecnica e poetica sullo slittamento tra pubblico e impersonale; proprio sul personale vertono invece l’intensità autobiografica performativa di Nico Vascellari e Janaina Tschäpe.
Merito non indifferente della mostra è rendere accessibili i video di Vito Acconci e quelli proposti da Gerry Schum, che sostanziano il percorso con gli antecedenti storici della riflessione sullo spazio e sulla diffusione pubblica e mediatica dell’arte, con lo stimolante accostamento ai recenti esperimenti di Kuba Bakowski.

In fondo, il “pubblico” va affrontato con un sorriso, sincero nell’affettiva ricerca di approvazione di Kate Gilmore o malfido e prontamente dissacrato, come per i dittatori di Vedovamazzei. Purché non sia inconsapevole e, come suggerito dall’installazione estetica ed etica di Melita Rotondo, continui pur nell’ironia a pretendere rispetto per la libertà.

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diana gianquitto
mostra visitata il 12-13 dicembre 2008


dal 13 dicembre 2008 al 20 aprile 2009
My Space. Cosa vuol dire pubblico?
a cura di Laura Barreca e Julia Draganović
PAN – Palazzo delle Arti Napoli – Palazzo Roccella
Via dei Mille, 60 (zona Chiaia) – 80121 Napoli
Orario: feriali ore 9.30-19.30; festivi ore 9.30-14; chiuso il martedì
Ingresso: intero € 5; ridotto € 3,50
Catalogo disponibile, € 0
Info: tel. +39 0817958605; fax +39 0817958608; info@palazzoartinapoli.net; www.palazzoartinapoli.net

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