Quando si dice
fare le guarattelle. In senso proprio e non metaforico dell’espressione. Perché è questo che
Lucie Fontaine (vive a Colmar, Francia) ha fatto, inscenando nel piccolo ambiente della galleria un autentico teatro dei burattini. A manovrarli però non c’è lei o, meglio, non ci sono loro, perché dietro lo pseudonimo femminile si cela un collettivo che ha tutta l’intenzione di mantenere l’anonimato.
Impiegati dell’arte. Così amano definirsi i giovanissimi e versatili creativi – un lui e una lei, solo questo ci è dato sapere – che faranno da regia a tutto il progetto
Perché Napoli?, un ciclo di appuntamenti espositivi, con relativa pubblicazione conclusiva, che vedrà avvicendarsi artisti della scuderia (tra cui
Claire Fontaine e
Jordan Wolfson) e nomi inediti. Tutti rigorosamente stranieri.
Poiché l’intento è quello di scoprire la percezione che
gli altri hanno della città e della sua storia attraverso sguardi distanti, non invischiati. Dunque nessuna residenza, niente site specific. L’indagine deve necessariamente essere concepita
extra moenia. Un esperimento squisitamente curatoriale che adotta tra l’altro la formula dell’
antiopening, cioè l’assenza della tradizionale inaugurazione, sfruttando la favorevole posizione fronte strada dello spazio, come vetrina che predispone naturalmente a una fruizione non solo volontaria.
Eppure, nonostante l’esterofilia dell’impianto progettuale, la misteriosa coppia, che ha condotto le proprie ricerche in totale autonomia, ha imbastito appropriatamente il vivace tessuto culturale partenopeo. Questo
Teatro Di Piazza Dei Tribunali – T.D.P.D.T., titolo dell’installazione, è qualcosa che non ci si aspetta di vedere dai ragazzi della T293, devoti a un concettualismo dall’esito formale radicalmente
minimal.
Stupisce, invece, la fiabesca esplosione cromatica dell’allestimento con tanto di
castello e marionette che, a due a due, formano sodalizi plausibili o improbabili tra personaggi che in qualche modo hanno calcato il palcoscenico dell’arte napoletana. Ciascuna coppia associata a scenari urbani tipici, ritratti in scatti da cartolina, alleggeriti dal collage di veline in
nuance pastello. Ed ecco che, tra gli altri, spuntano sotto il Maschio Angioino,
Marina Abramovic – con l’immancabile serpente – e Peppe Morra. Mentre Ernesto Esposito e
Joseph Kosuth s’incontrano in Piazza del Plebiscito e Lucio Amelio e Dina Caròla si aggirano tra i resti dell’urbe sotterranea.
Una reinterpretazione del passato e non una filologica ricostruzione, sia dal punto di vista ritrattistico che contenutistico, tant’è che i fantocci sono appena verosimiglianti e i canovacci tracciano soltanto le linee di dialoghi ironici al limite del surreale. Operazione giocata soprattutto al livello della comunicazione, che sfrutta l’indeterminatezza dell’oralità e l’estemporaneità performativa per rimescolare le carte di un prezioso retaggio storico. Che talvolta, però, pesa come un macigno sulle spalle di chi con esso deve fare i conti, giorno per giorno.