È difficile dire
la verità. Non nel senso che è arduo non mentire, ma che è impossibile affermare assolute certezze sui massimi sistemi, come Dio e la religione.
Sebastiano Mauri (Milano, 1972) aborrisce le preclusioni, corteggia il vero e alla fine accarezza il dubbio. Un dubbio possibilista e pluralista, per abbracciare almeno la più autentica forma di sincerità, se inaccessibile è la verità.
Ad avvolgere l’osservatore col rassicurante manto di riconoscibilità iconografica è subito la foto di una sculturina votiva della Vergine: confortante immedesimazione in una nota cultura religiosa, presto però smentita dagli altri scatti sulla parete attigua. Simboli di ogni culto e tipo, uno persino come stampo da budino, mostrati tutti senza gerarchie fideistiche né estetiche. Immagini della pietà popolare di ogni latitudine e secolo che, livellate in un unico orizzonte espositivo e temporale, riconferiscono centralità all’unica prospettiva che le genera: l’insopprimibile bisogno umano di qualcosa che doni senso a morte e vita.
Mauri fa apparire plausibili e quotidiane tutte queste rappresentazioni, contornandole di una cornice invecchiata, che sembra appena uscita dal salotto buono di famiglia, e valorizzandone appieno con gi sfondi l’impatto estetico e cromatico, con la stessa abilità coloristica delle tele di un decennio fa. Ritrovando il medesimo straniamento che investiva le piccole figurine che abitavano quelle opere, questi “dei” domestici, in virtù dell’illuminazione drammatica “
sembrano anche sperduti e piccoli”, secondo lo stesso autore, quasi a indurre il desiderio di “adottarle”. Il centro è dunque proprio la spinta emotiva di ogni conversione, l’aspetto terreno del religioso.
Voci umane di ogni lingua e credenza sono il focus del video della sala successiva, un continuo sfumare l’una nell’altra di immagini sacre. Sono appunto le accorate preghiere a produrre la traccia emotiva forte rimanente nel continuo susseguirsi di dei: un’istintiva empatia che induce a unire la propria voce a ognuna di quelle, sottolineando il senso di comunità insito in ogni religione. Inevitabile abbandonare l’arbitrarietà delle preclusioni, proprio come nei precedenti lavori dell’artista, costringenti a relazionarsi senza preconcetti, solo secondo immediate risonanze interiori, con identità fuse e decontestualizzate.
E uno stupore impulsivo, quasi infantile, è sollecitato dalle sculture che fan capolino dal buio della sala inferiore, piccole
mirabilia da scoprire una a una. Lucine di Natale, carte come da cioccolata, strass, fiorellini: i decori che circondano gli dei incrostano i sacri “altarini” tanto di un paradossalmente elegante kitsch quanto di tenerezza, non devozionale ma umana.
S’intuisce, nel premuroso iperdecorativismo volto a legittimare ogni divinità, l’
horror vacui che lo genera. Coro visivo delle tante verità umane, per sentire quanto sacro è il legame che le accomuna nello sbugiardare la morte.