Di-segno in segno. L’universo grafico di
Marco Raparelli (Roma, 1975) è in continua metamorfosi, e in questa prima prova partenopea svela tutte le sue facce. Un big bang originato dall’incontro tra penna e foglio, nucleo da cui scaturiscono forme più complesse: la video-animazione e la scultura. Questa cosmogonia ha il suo incipit nell’installazione che titola la mostra:
Il futuro non è più quello di una volta. Nostalgico rimpianto per il tempo che fu, d’intenso sapore popolare e paradossale, come il mondo che l’inchiostro immortala nelle pagine del diario squadernato sulle pareti della galleria.
Frammenti di memoria, schizzi di realtà, brandelli di fantasia raccontati in un patchwork di cellulosa, ritagliati nella carta, intrappolati qui e là dalle cornici, con un tratto sintetico, asciutto, estemporaneo. Un alfabeto funzionale alla descrizione di microcosmi surreali, grotteschi, anti-gerarchici, popolati di oggetti, animali e uomini rappresentati con la medesima importanza, poiché tutto contribuisce a costruire una microstoria.
A emergere è un’atmosfera intima, domestica, in cui l’individuo – catturato nella più banale quotidianità – fa i conti con se stesso, col peso della propria psicologia. Una prova di forza che si materializza nel divertente mix formale di
God must be crazy, comic strip che sfocia nella scultura. Una piccola sagoma trasporta faticosamente sulla schiena e getta in un dirupo enormi massi neri, che vanno ad ammonticchiarsi, realmente, a terra. Quello di Raparelli è un uomo che non soccombe alle difficoltà, forse perché trova riparo nella dimensione onirica, approdando in uno dei più tipici non-luoghi dell’immaginazione: l’isola che non c’è. Un minuscolo atollo di das su cui si erge un unico edificio, un po’ rifugio e un po’ prigione.
Magari è qui che sogna di essere il protagonista dell’altro lavoro plastico in mostra, costituito da tre box che riproducono minuziosamente un appartamento in scala ridotta. Piatti sporchi accatastati e riviste sexy fanno pensare alla casa di un single. Tuttavia, un succulento pollo infornato e un bigliettino lasciato sul tavolo, con su scritto “
i love you”, sono indizi di una presenza femminile. Per dire che, con l’amore,
Everything will be wonderfull someday!, come recita in un inglese maccheronico il collage che introduce al terzo ambiente.
Perché la felicità non sta in ciò ch’è perfetto, ma in ciò che soddisfa. Lo sa bene lo spigoloso
Abandoned Dog, che nel video-animato riesce, durante la sua fuga verso il mare, ad appagare più di un istinto, incontrando sulla strada un macellaio e una cagnetta compiacenti. Una narrazione amaramente ironica, dove all’essere umano tocca una sorte meno propizia, diventando, in una catena alimentare totalmente rovesciata, cibo per i pesci.
Stranezze, bizzarrie, stravaganze declinate sapientemente, con un lessico
politically uncorrect, immediato, fulmineo, mordace nella sua irrisione degli stereotipi e dei luoghi comuni. Sarcasmo che non risparmia i
topoi dell’arte. Un fumettistico buco dipinto ad acrilico sul pavimento è infatti un
fake del site specific, riproducibile ovunque. Senza il rischio che qualcuno possa cascarci dentro.