Bisogna interrogarsi sulla
scultura. Se è “girare intorno” cognitivamente a un oggetto, coglierne la multidimensionalità oltre la comprensione di facciata, allora
Ceal Floyer (Karachi, 1968; vive a Berlino) scultrice lo è fino al midollo, anche in opere bidimensionali. Ancor più se al 3d si aggiungono un quarto e quinto livello, il
tempo necessario a relazionarsi all’opera e il piano immaginativo del fruitore.
Perché la vincitrice del
Nationalgalerie Prize for Young Art è giovane ma non immemore della tradizione che, da
Kosuth a
Nauman, da
Magritte a
Duchamp, ha sfidato criteri cognitivi e percettivi, spingendo con cortocircuiti e
jeux de mots a rinegoziare il rapporto col quotidiano, a rivederne le prospettive e a riaprire la questione dell’
ovvio.
È questa la materia che innanzitutto Floyer scolpisce, i preconcetti e dati mentali del percettore, insieme alla fluidità di un tempo generato, compromesso, plasmato come cera. Ciò che l’artista aggiunge è la consapevole ironia citazionista di chi sa d’essere anello di una catena già esistente e la contemplativa sospensione di chi, più che surrealmente sognante, è cosciente, per la cultura ipertestuale in cui è immerso, dei molti livelli del reale.
Così, in
Drill la riconoscibilità del ready made si dissolve nel dubbio doppio senso, designante il trapano ma anche la sua funzione, richiamata dai fori nel muro. Primo “assaggio” forse un po’ automatico ma predisponente, per la riflessività che induce, ad apprezzare i successivi e più densi lavori.
Stop Motion, dittico di foto di una goccia e della corona prodotta dal suo cadere, merita una connotazione “scultorea” e ambientale, dato che a riprodursi, nello spazio dilatato tra i pannelli, è proprio la dimensione aggiuntiva del tempo fra gli scatti e di quello necessario alla comprensione: sarebbe piaciuto ai cubisti, tale inserimento del
chronos nell’opera.
Tableau, “tavolo” da ping-pong o prototipo del “quadro” di paesaggio, insaporisce l’apparente
naïveté con la postmoderna consapevolezza di citare antichi dibattiti sul significato di rappresentazione, mentre il gioco linguistico è per opposizione nel pulito minimalismo plastico di
Order, schedario “sabotato” dalla disposizione diagonale, e in
Plumbline, filo a piombo che, mentore
Luciano Fabro, induce a percepire l’ambientale decentramento dello spazio circostante.
La diacronica ricollocazione percettiva e l’effetto linguistico, analogici in
Title Variable: 1,57 m e lirici in
Blind, ammiccano a ludiche reminescenze infantili in
Mousehole e
Dotted Line. Giocano col
disappointment del fruitore anche
Dancing Flames, video con fiamme danzanti a una musica invece del tutto casuale, e
Stereo, sonoro di applausi che poi si scoprono conditi di
booing. Fedele rappresentazione di un reale di cui Floyer insegna a cogliere la sottile e dispettosa inafferrabilità.
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questa recensione è splendida.
ma c'è qualcuno che abbia il coraggio di dire che questa mostra è orribile e insulsa?
si vedono:
1. un trapano
2. due foto del latte
3. un tavolo da ping pong
4. uno schedario
5. un filo a piombo
6. un elastico
7. una fotocopia col buco della tana del topolino
devo continuare?
ma perché propongono queste cose? e perché una persona deve sprecare il suo talento a scriverne?
sarà... ma è proprio sulle mostre più insulse e orribili che si riescono a scrivere le migliori recensioni....