Un rientro promettente quello di
Eric Wesley (Los Angeles, 1973), che ritrova quello spirito di progettualità forte che aveva caratterizzato il suo esordio italiano nella galleria di Franco Noero a Torino, trasformata per quell’occasione in una fabbrica di esplosivi in scala uno a uno. Dopo la parentesi interessante ma dispersiva presso la Galleria Fonti, dove l’artista aveva esposto una produzione piuttosto etereogenea (fotografie, assemblage, dipinti), la terza personale nella penisola segna il passaggio dall’idea di un ambiente referenziale, ri-calcato da un modello reale, a quella di un ambiente ibrido, che condensa in un solo allestimento le funzionalità di due spazi convenzionalmente autonomi. Un condensato ambientale ma anche linguistico, annunciato con netto anticipo dal titolo dell’opera progettata con la dovuta calma e attenzione da Wesley, tra i primi artisti stranieri a beneficiare della formula del
residence program messa a punto dalla Fondazione Morra Greco per dare continuità al rapporto creativo e professionale tra giovane arte e committenza locale.
La parola anglosassone
Spafice può essere letta come una parola-ombrello che condensa ironicamente in un solo termine il sostantivo “spa” con la coda della parola “office”. Tuttavia, il tedio della “vita da ufficio” è ancora lontano quando il visitatore percorre una confortevole anticamera che ricorda lo spogliatoio di uno
spa resort in stile continentale, con i suoi accappatoi bianchi attacati alle pareti. Si giunge nello spazio principale riscaldato dalla fiamma di una caldaia, in un ambiente prevalentemente acquatico, che ci invita a navigare sul web attraverso le schermate videoproiettate sulle pareti di una terna di computer. La terza tastiera, siliconata e resistente all’acqua, è poggiata sul bordo di una vasca termale, un oggetto deittico che assume una funzione non soltanto scenografica ma anche segnaletica. Il pubblico più intraprendente ha l’opportunità di guadare un bacino idrico artificiale sormontato dal getto di una fontana. Un’operazione resa possibile soltanto grazie all’ausilio di quattro pedane a fior d’acqua, che rievocano involontariamente alcune installazioni meno interattive del compianto
Pino Pascali.
L’ultimo segmento dell’ambiente ospita un tavolo d’artista-artigiano con imbuti e materiali da costruzione, affiancato da un altro supporto perforato da una trivella che instaura un dialogo a distanza con la caldaia. L’altra faccia oscura del lavoro: l’arte contemporanea non può essere ridotta a luna-park para-surrealista. Un finale beffardo e ingegnoso che dissipa ogni sensazione di
gemütlichkeit. Il comfort va cercato al di fuori dello spazio espositivo.