Possedere il resoconto dell’andirivieni dalla toilette di un bar non cambierà i destini dell’umanità, né tantomeno la storia dell’arte. Ma per James Beckett (Harare, Zimbabwe, 1977, vive ad Amsterdam) la parola chiave è: ricerca. Scientifica ed estetica. Comunque e dappertutto. Come propellente, la voglia di tradurre in immagini concetti onnipresenti nel quotidiano, spesso difficili da visualizzare. Carenza cui l’artista sopperisce, naturalmente, a modo suo: curioso, stravagante e tecnicamente smanioso. Rielaborando tesi, grafici, tabelle. Mantenendo un’estesa e multidisciplinare rete di contatti con colleghi, studiosi e musicisti di pregio (questi ultimi, in particolare, per coltivare e approfondire gli interessi nel campo della composizione: attualmente è coinvolto nel progetto che riprodurrà il generatore di rumori di Luigi Russolo). Insomma, sperimentando, ma senza pretese epistemologiche. Semmai, con una verve “patafisica” e un’applicazione utilitaria, meccanica più che tecnologica, costruendo ex novo o ricostruendo macchine che non servono a niente, se non a fare scena. Cioè a fare mostra.
Aggeggi macroscopici ma assolutamente inutili, discrepanza rafforzativa di un presupposto concettuale polemicamente ironico. Ispiratore del grande plotter che, collegato a due sensori piazzati sulle porte rispettivamente di bagno e cucina del bar attiguo alla galleria, ne registra gli ingressi, imprimendoli in tempo reale, tramite forature su un rullo di carta, in una successione ritmica che diventa misura temporale.
Una bizzarria pure le “normalissime” cravatte, confezionate con un tartan disegnato e tessuto ad hoc (con tanto di certificato, nonostante il non canonico accostamento tra bianco e verde), che abbina dato privato (l’omaggio alle proprie radici scozzesi) a erudizione: lo spunto è dato infatti dagli esperimenti dell’anatomopatologo William Beaumont, che perfezionò i propri studi di fisiologia gastrica osservando i processi digestivi direttamente dallo squarcio aperto nello stomaco di un soldato ferito. Un macabro reality clinico, rievocato per confezionare un accessorio di lusso che, guarda caso, poggia proprio sulla parte lesa! Il sarcasmo per colpire un progresso specioso e lucroso, opponendogli uno scientismo passatista e paradossale, a dimostrazione di come indagini diagnostiche e analisi di mercato si equivalgano.
Allora i dati di test e rilievi effettuati su ponti, fuochi e bambini vengono sfruttati non per costruire e produrre, ma per disegnare skylines cupi e suggestivi. Paesaggi partoriti da un fare intellettualmente attivo, ma aristocraticamente improduttivo. Anche perché, se la scienza serve a poco, figuriamoci l’arte.
anita pepe
mostra visitata il 2 febbraio 2007
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