Quando la periferia smetterà di esistere il cuore delle città cesserà di battere. Senza catastrofismi e futuribili proclami d’artista d’antan, nell’immaginario reale e specifico di Eugenio Tibaldi (Alba, 1977) è Napoli che perderebbe l’alito vitale se ciò accadesse. Luogo d’indagine è la periferia della città più grande del meridione, che annovera uno sviluppo urbano esteso dal sud di Castellammare di Stabia e Torre Annunziata al nord di Giugliano in Campania, dove l’artista risiede da tempo. Uno spazio fuori misura dove se il cielo cambia colore a seconda del tempo non importa a nessuno perché il grigio delle costruzioni intorno rimane. Ben altri sono i problemi che persistono, ma la periferia per Tibaldi esce dal luogo comune di degrado per divenire spazio scenico. Un atto unico, quello espresso dalle tre opere esposte che impersonano ciò che l’artista chiama l’estetica della periferia. Una periferia che trova dentro di sé gli strumenti per agire e che, sempre secondo l’artista, “dominerà il millennio”.
Tibaldi fa le cose per bene. Con rigore seleziona le immagini di cartografia, come in Geografia economica 02 (2006), dove si vede il sistema vitale di Giugliano: una gigantesca foto satellitare su plexiglas calpestabile (è piantata sul pavimento), dove dal bianco dell’acrilico emergono le villette con giardino monodotato, l’edilizia abusiva e le strade a lunga percorrenza che attraversano un deserto lunare di campi, un tempo coltivabili e dediti all’agricoltura. È l’economia che non serve più, che ha ceduto il passo alle lattughe sempre fresche e tutte con lo stesso punto di colore verde iceberg (!) e ai pomodori “by china pachino”.
Il Point of view, anzi per la precisione, i due point, panorami non esattamente da cartolina, sono ad acrilico bianco su
Nere le gambe che spuntano da sotto l’accumulo di palloncini nella fotografia che ha ispirato l’installazione e nera la resina, che scende morbida lungo la lastra di onice di Economic mark 01, una mappatura dei comuni vesuviani di Ottaviano, Sant’Anastasia, San Giuseppe, tra gli altri. La luce posta dietro la lastra non filtra nei passaggi della resina. La lava copre lo scempio edilizio, ma c’è ancora spazio per le calde striature gialle e arancioni di un deserto liberato dalla presenza umana.
irene tedesco
mostra visitata il 14 marzo 2007
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