Una piccola ombra. Flebile, quasi impercettibile, eppure tenace. Rimescola le carte della geometria e fa germinare nuove coordinate spaziali. Quel piccolo segno disegnato dalla luce sulla
Meridiana di
Grazia Varisco (Milano, 1937) condensa in sé tutto il senso di una ricerca che, partita negli anni ‘60 con la riflessione del Gruppo T sul nesso spazio/tempo, si è poi declinata autonomamente sul prevalente tema dello spazio. Uno spazio ben poco cartesiano e geometricamente bloccato, e anzi plasmato all’infinito dalla soggettività percettiva e dalla libera interazione del fruitore, in una prensile volontà di possesso e modificazione del reale. Come quella sottile ombra trasforma lo spazio, sconfinando sulla parete, contraendosi e dilatandosi in base alla luce, così l’azione dell’artista modella a suo piacere la tridimensionalità del mondo. Ma non di un mondo concettuale e ipotetico: scopo della Varisco è mostrare come anche la piana quotidianità dello stipite di una porta possa dar vita alle destabilizzanti
Disarticolazioni di uno spazio che non si sa più se percepire come angolo reale di una parete o come attivatore ottico di volumi illusori che variano in base al punto di osservazione.
È proprio lo stupore nel vedere disinnescati i rigidi schemi conoscitivi dell’assoluto geometrico a forgiare il titolo e i cerchi di
Oh!, surreale rappresentazione, dalla sorridente ironia magrittiana, dell’utopistico eppur plausibile mondo della geometria, costretto a “piegarsi” sotto l’onda d’urto di una parete concreta. A vedersela con i muri della galleria sono anche gli
Gnomoni. Come se un vento capriccioso li avesse strappati dal piano cartesiano per abbandonarli inermi nel mondo reale, i quadrilateri di metallo si accartocciano, si piegano e si relativizzano al contatto con la parete, esposti all’insolente deformazione delle piegature e della percezione dell’osservatore, che moltiplica o riduce i volumi in base al punto di vista. Come se non bastasse, anche l’ombra impertinente (ancora lei) proiettata dai segmenti inserisce altri lati illusori, nuove variabili di una forma inafferrabile. Le ombre del reale e dell’animo non vanno mai sottovalutate, perché l’illusorio, a volte, è anche più consistente del vero. Come dimostrano le placche di
Silenzi -solo pretesti per le mutevoli geometrie di ombre che l’interazione del fruitore vorrà trarre dalla sua intimità- o il caleidoscopio di forme che lo
Schema Luminoso Variabile riesce a trarre per illusione ottica da due semplici reticolati.
Più che calzante, allora, la citazione da Dickinson che Federico Sardella ha premesso al suo saggio critico sui
Silenzi: “Questi giorni febbrili / portarli alla foresta […] / dove l’ombra è l’unica cosa che devasti la quiete”. Emblema perfetto di una ricerca che invita a squassarla davvero, la morta quiete geometrica dell’autorità e del mondo. Con l’intimista e democratizzante intervento dell’ombra della nostra soggettività.