Le due artiste (una danese e l’altra newyorkese), si confrontano sul tema del disagio, della sessualità e della difficoltà di comunicazione degli adolescenti di oggi.
Il terreno comune è la mutata percezione tecnologica che come forma di eccitazione artificiale e intensificata prevede una compenetrazione tra neuroni e pelle, in cui il corpo diviene l’espressione dei contenuti psichici. Per entrambe le artiste non si tratta di porsi nella loro condizione come soggetti centrali, ma piuttosto decentrati in un humus sociale. Al suo interno osservano se stesse come parte del paesaggio il cui orizzonte è costituito dai più immediati riferimenti generazionali: la musica come
Interpretare l’altro da sé, il mito giovanile, che può anche essere negativo e distruttivo, vuol dire appropriarsi di quelle apparenze che si alleano e congiurano per combattere il senso, intenzionale o no, trasformandolo in un gioco, ribaltando i ruoli in un’altra regola del gioco, questa volta arbitraria, in un altro rituale inafferrabile, più avventuroso, più seducente. La stessa realtà per Trine Boesen perde connotati quotidiani per assumere l’aspetto televisivo, fumettistico e stilizzato del linguaggio dei media. Il suo universo femminile è immerso in coreografie improvvisate in cui i personaggi riescono a armonizzare i loro comportamenti perché appartengono tutti alla stessa tribù che, da sempre, ha posto l’accento sul divenire, la fugacità dell’esistenza, Persone che sono coscienti del proprio corpo, non contestano niente, la loro ribellione è discreta, allusiva, senza ideologie. Eppure i loro valori
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maya pacifico
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