Aria, acqua, terra e fuoco. Il quinto elemento è il lavoro che
Roberto Paci Dalò (Rimini, 1962; vive a Rimini e Napoli) presenta nell’ambito del
Sabato delle idee, rassegna di tavole rotonde incentrate su Napoli, capitale
illo tempore dove spesso la storia scivola nello stereotipo.
Contro i cliché antropologici e visivi vanno invece i 15 minuti di questa mappa interiore ispirata all’
Atlante delle emozioni della partenopea cattedratica a Harvard Giuliana Bruno, monumentale esplorazione di spazi urbani conclusa da un ritorno alle radici. Origini adottate e intensamente ripercorse da Paci Dalò, in un bianco e nero che a tratti ricorda quello di documentari e cinegiornali d’epoca, facendo nascere il sospetto che in questa città sinistrata e in perenne stato d’allerta la guerra non sia mai finita.
Organico all’immagine è il suono: reale e sintetico, mixato non come ornamentale colonna sonora, ma quale architettura emotiva. Una installazione ambientale che oppone la fisicità dell’impalpabile all’ambiguità della visione che, con minimi e occulti virtuosismi tecnici, gioca con gli automatismi percettivi dello spettatore, trasformando la perspicuità in illusionismo e sfidando talvolta le leggi della fisica, per arrivare a un esito “
non newtoniano”.
Tutto comincia in un bar che, come lo specchio di
Alice nel Paese delle Meraviglie, è la soglia da attraversare: oltre i vapori bollenti, l’acciottolio delle tazzine e il tintinnio dei cucchiaini, il vagabondaggio dell’autore prende diverse direzioni. Le orme portano idealmente all’“ulissiaca” passeggiata di Leopold Bloom e Stephen Dedalus per le vie di Dublino o, per parafrasare archetipi ancor più nostrani, alla discesa dalla superficie purgatoriale del quotidiano agli Inferi del sottosuolo antico, anche questo specchio del soprastante e, al contempo, memoria bellica.
Un
itinerarium mentis che non aspira alla salita, ma si disperde in derive diurne e notturne, riverbero anche queste le une delle altre. E di riflesso agisce anche lo sguardo sfuggente di un regista che ama starsene acquattato, appostato, isolato, simboleggiando con quest’atteggiamento un nervo poco scoperto di una “napoletanità” non sempre, e non necessariamente, teatrale e sbracata. Una cogitabonda accidia che abbacina nei pomeriggi spiati, ma soprattutto tremola in scenari uggiosi, che si dissolvono tra pioggia, vapori, volute di fumo, lenti passaggi tra i vari stadi di una materia in perpetua
trasformazione.
Il bar diventa allora officina alchemica, in cui la contiguità fra natura e macchina distilla, invece della solita
tazzuella ‘e café, un precipitato di pura
melencholia.