Quando la cornice è solida, il quadro regge e fa pure bella figura. Lo sapevano i grandi e piccoli novellatori d’ogni epoca e latitudine e lo sapeva pure il napoletano Gian Alesio Abbattutis, alias Giambattista Basile, campione del barocco cui la Nera Signora impedì di veder pubblicato, tra il 1634 e il 1635, il suo
Cunto de li cunti: “Il racconto dei racconti”, titolo che sa un po’ di smargiassata secentesca e sembrerebbe -ma non è- decisamente enfatico per una raccolta di fiabe in dialetto.
Un “
trattenimento de’ piccerille” che all’incomprensibilità dell’antico vernacolo aggiunge le acrobazie scrittorie tipiche del secolo, ma che è, in ogni caso, un (saccheggiatissimo) capolavoro, la cui struttura policentrica fa da perno e cornice site specific alla seconda personale italiana di
Christian Flamm (Stuttgart, 1974; vive a Londra). Il quale, piuttosto che illustrare forzatamente un testo inaccessibile, preferisce saggiamente interpretarlo come archetipo d’una forma letteraria, deducendovi, più che una serie di topoi codificati, i presupposti creativi di fantasia e libertà .
Di barocco, in questa personale, sopravvive altresì una latente inclinazione alla teatralità , intesa, più che come fine “meraviglioso”, quale serbatoio iconografico.
Ecco allora ballerine, clown, bambini e uomini in doppiopetto, tratteggiati a mo’ di silhouette e bozzetti in un’onesta e gradevole serie di acquerelli dai toni limitati e discreti, un quasi-bianconero ravvivato di rosso, in cui una mano esperta e delicata, più che stiracchiare parallelismi in chiave contemporaneizzata, abolisce precisi cronotopi di riferimento, in nome dei principi di atemporalità e astrazione intrinseci alla fiaba (logica in cui s’inserisce la divagazione cromatica verde, richiamo all’usitato bosco).
Una messinscena officiata con l’acqua del Golfo, raccolta in una fiaschetta e inviata Oltremanica all’artista per diluire i colori, con un’operazione performativo-concettuale che si riallaccia al “liquido” incipit del
Pentamerone (abusiva trasposizione grecizzante del titolo originario): le lacrime versate da Zoza in una brocca per risvegliare dalla mortale fatagione il principe Taddeo di Camporotondo.
Azzeccati alla scenografia dell’allestimento, più che organici all’economia espositiva, i due wall painting neri, dove spiccano da un lato l’immancabile (e blandamente minatoria) morale della favola, sentenziata a punto-croce su un bianco pendant, e dall’altro, sotto l’astro suprematista del cuneo scarlatto, un pentagramma, allusione al tempo della narrazione e all’impercettibile installazione sonora, generata da una rudimentale scultura musicale “suonata” per un’ora da Flamm: un rocchetto rivestito di stoffa nera, il cui fruscio evocherebbe lo sciabordio marino.
Un
trompe-l’oreille la cui povertà visiva viene ingentilita dalle sottostanti piume d’oca, pindarico invito a sprimacciare un altro classico del genere: i
Contes de ma Mère l’Oye di Perrault, altro illustre debitore di Basile. Se avete una
Giornata a disposizione, fatevi
cuntare la storia di una certa Gatta Cenerentola…