Il curriculum è di quelli rassicuranti. Di quelli promettenti. Residenze a Viafarini e alla Ratti. Collettive in fondazioni del calibro della Bevilacqua la Masa e della Sandretto Re Rebaudengo. Qualche importante riconoscimento già preso e portato a casa. Il tutto alla tenera età di venticinque anni. Insomma, ha proprio le carte in regola
Alberto Tadiello (Montecchio Maggiore, Vicenza, 1983). Tanto da indurre una delle giovani gallerie più lanciate a livello internazionale a scommettere su di lui.
Viso da ragazzetto, sguardo schivo, accento smaccatamente veneto. Il giovane padano illustra i suoi marchingegni. Sì, perché il suo è un lavoro che necessita di spiegazioni, almeno nel funzionamento. Glissa invece sui significati. “
Quelli li lascio a voi”, dice, telegrafico. Dunque, parola alle opere. Due audio-installazioni, pensate per il piccolo spazio fronte strada, che già nel titolo annunciano forma e concetto a cui s’ispira la loro logica costitutiva:
EPROM, acronimo di
Erasable Programmable Read Only Memory. Una memoria di sola lettura cancellabile e riprogrammabile un numero imprecisato ma finito di volte. Parafrasando, una sorta di contenitore dalla capienza limitata.
Nella sua trasposizione artistica diventa un
assemblage a parete di cavi elettrici collegati ad alimentatori di motorini che azionano quaranta carillon. La rotazione accelerata dei cilindretti genera un suono, tutt’altro che melodioso, orchestrato da un temporizzatore. Un frastuono destinato via via ad attenuarsi per poi svanire a causa dell’usura dei rocchetti. L’iter creativo avviene per sottrazione, addizione e autodistruzione.
L’artista preleva, assembra e infine lascia che l’opera viva incontrollata. L’abbandona a un destino incerto
in itinere, ma dall’esito prevedibile, determinato in questo caso da elementi intrinseci; da variabili estrinseche in progetti precedenti, come nei meccanismi di sonorizzazione delle maree, dei sismi e dei flussi linfatici. Volendo astrarre dal mero tecnicismo, si potrebbe ipotizzare l’intento di una fisicizzazione acustica condotta attraverso un procedimento installativo non scevro di gradevolezza estetica.
Lo stagliarsi dei fili neri sul bianco dell’intonaco produce infatti un piacevole effetto grafico incline alla poesia, dato che la trascrizione tridimensionale dei circuiti elettronici ricorda inequivocabilmente forme vegetali. Una propensione alla natura, inconcepibile se ci si sofferma sulla soglia della palese artificialità.
Tuttavia, un’analisi più approfondita sviscera orientamenti affini ai processi vitali che strutturano qualsiasi tipo di ecosistema, come la ciclicità, la riproducibilità, la variazione e la rigenerazione della materia. “
Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma” è il postulato che potrebbe adattarsi a una ricerca in cui l’intervento poietico funge da provocatore fenomenico.
Semplici congetture? Pure supposizioni semantiche? Sarà. Ma, questa volta, è stato l’artista a dare il placet.